Hatidža ha lottato per ventitré anni in nome della verità e della giustizia. Imparare dal suo coraggio può servire a dare una speranza, e a non smettere di lottare per un mondo migliore

Hatidža Mehmedović se n’è andata il 22 luglio 2018, ventitré anni dopo. E pochi spiccioli di giorni. Il marito di Hatidža, i suoi due figli maschi – di 18 e 21 anni – e una dozzina di altri parenti hanno trovato la morte anche loro in luglio, a Srebrenica. Lì erano rimasti tutti per oltre tre anni, assediati dalla soldataglia serbo-bosniaca al comando del generale, capo di stato maggiore e criminale di guerra Ratko Mladić – ergastolo in primo grado emesso dal Tribunale per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia il 22 novembre 2017 – e dalla marmaglia sanguinaria paramilitare serba, greca, russa e dio solo sa proveniente da quanti altri Paesi d’Europa. Tutti a bagnarsi la bocca col sangue dei musulmani bosniaci di Srebrenica. Tutti a saccheggiare il saccheggiabile. Perché la guerra, a ogni livello, non è mai qualcosa che si fa per una ragione “alta”: la si fa per ebrezza di dominio e per arricchimento.

Tanti anni fa Hatidža mi aveva accolto nella sua casa di Srebrenica, dove era tornata a vivere da poco. Era l’inverno del 2004 e davanti alla stufa nel salottino al primo piano parlavamo sorseggiando caffè e lacrime. Il suo sorriso carico di dolore, i suoi occhi arrossati e stanchi, ma mai domi, mi sono rimasti dentro da allora, per sempre. Come i suoi abbracci di sorella maggiore. Ogni volta che ci incontravamo, a Srebrenica come altrove, le sue strette erano cariche di affetto e di sincerità, dense di vita e di speranza. Quella di recuperare i corpi del marito e dei figli ammazzati e fatti scomparire nelle fosse comuni tra il 12 e il 15 luglio 1995 a Srebrenica.

Forse ha ragione chi dice che le donne di Srebrenica sono morte che camminano, il cui unico scopo è quello di ritrovare le ossa dei propri cari – 10.701 persone trucidate barbaramente a pochi passi dai caschi blu olandesi inviati dall’Onu, tutti sordi, ciechi e muti – e ridare loro un nome, prima di calarle nella terra cruda e rossa di Potočari.

«Non c’è inizio né fine alla mia storia» aveva cominciato a raccontare con la voce roca, forte, sollecitata da una domanda qualsiasi, quel giorno freddo nella sua casa a Srebrenica, mentre i ciocchi di legna scoppiettavano nel fuoco. «Ricordo tutto come fosse ieri. La nostra agonia vera e propria, dopo tre anni d’assedio, si può dire che sia cominciata il 6 luglio, quando iniziò l’attacco decisivo dei corpi militari serbo-bosniaci, quattro dei quali provenivano dalla Serbia. L’11 luglio arrivò mio figlio maggiore, Jasmin; era nato nel 1974 e faceva parte della difesa di Srebrenica. Disse a me, a suo fratello minore e a mio marito di nasconderci da qualche parte, perché ormai eravamo vicini alla caduta dell’enclave. Quella mattina erano state fatte circolare molte voci. Noi vivevamo in un paesino in collina e le notizie per tre anni c’erano arrivate sempre attraverso le parole dello stesso giornalista, che tutte le mattine ascoltavamo parlare alla radio. Ma quel giorno la voce che usciva dalla mia radiolina era diversa: sentii parlare un altro giornalista, diceva che a Srebrenica la situazione si stava normalizzando. Era una voce sconosciuta. Durante il pomeriggio intuimmo invece che l’enclave era caduta in mano ai serbi. La conferma l’avemmo solo intorno alle 19.30, quando decisi di uscire per sincerarmi di come stessero realmente le cose. Fu allora che vidi arrivare le colonne di profughi. Anche noi dovemmo partire: abbandonammo le nostre case, tutto quello che avevamo. Ma di questo, devo dire la verità, non mi preoccupavo, perché non sapevo che cosa mi stesse aspettando. Se avessi potuto intuire che cosa sarebbe accaduto, non mi sarei mai separata dai miei figli».

Il fiume in piena delle parole di Hatidža si placava per un attimo: uno spazio infinitesimale. Poi ecco scoperchiarsi la pentola del dolore, il vaso di Pandora che nessuno penserebbe mai di poter portare dentro, come un macigno non scalfibile dal martello del tempo, riuscendo a sopravvivere.

«Mio figlio maggiore disse che l’Unprofor (la Forza di protezione delle Nazioni unite, ndr) a Srebrenica aveva dato l’ordine a chiunque fosse in grado di camminare di andare via per i boschi, di scappare per cercare di salvarsi la vita. Questo valeva per gli uomini. Le donne, i bambini e gli anziani, chiunque non se la sentisse di affrontare un viaggio a piedi, potevano andare alla base degli olandesi, a Potočari. Facemmo così: dovetti salutare i miei cari nella nostra casa vicina al bosco; è stato molto doloroso lasciarli andare. Ma non pensavo che non li avrei mai più rivisti. Se lo avessi saputo sarei andata con loro a guardare in faccia la morte. Mi ricordo di mio figlio minore: aveva 18 anni e non riusciva a staccarsi da me, né io da lui. Cercavamo di separarci ma non ce la facevamo. Lui mi diceva: “Vai mamma, vai, voglio solo dimenticare da quale parte sei andata”. Poi ho cominciato a camminare e ogni volta che mi giravo lo vedevo coprirsi il volto con le mani. Il viaggio fino a Potočari, a piedi, è durato un’eternità, anche se si trattava solo di una decina di chilometri dalla nostra casa. Arrivammo soltanto la sera tardi. La colonna era lunga. Durante il viaggio fummo colpiti dalle granate: sapevano dove stavamo passando e ci sparavano addosso. Giungemmo a Potočari a mezzanotte: era tutto pieno, tutto pieno. Pieno di bambini, di malati, di anziani…».

Questi e tanti altri ricordi di Hatidža sono contenuti nel mio libro più importante, Srebrenica. I giorni della vergogna. Hatidža lo conservava nella sua libreria. Ne aveva la prima edizione ed era stato quello il contenitore più importante delle sue parole, finché anche alcuni documentaristi non si accorsero di lei e la aiutarono, ci aiutarono, a far sentire la sua voce in tutto il mondo.

Hatidža circa un anno fa ha scoperto d’essere malata. Ha lottato come ha potuto a Sarajevo, assistita da una sanità distrutta scientificamente dalla politica per favorire le cliniche private, in un Paese in cui avere cure pubbliche è ormai una chimera. Con la dignità e la riservatezza di sempre ha voluto affrontare da sola quel male lasciando ad altre compagne di viaggio il compito di guidare l’associazione che era la sua vita, quella delle Madri di Srebrenica e Žepa.

Quando ha capito che il male aveva avuto la meglio sui suoi sforzi e sul suo amore per la vita, ha deciso di ritirarsi nella sua Srebrenica per morire con il cielo della sua cittadina negli occhi. Per stare più vicino possibile agli amori della sua vita, quegli amori che avrebbe sognato la rendessero nonna, e che invece sono svaniti nella terra di una fossa comune come migliaia di altri innocenti.

Hatidža ha lottato per ventitré anni in nome della verità e della giustizia. Ha lottato per ventitré anni per sopravvivere alla morte dei suoi figli senza impazzire. Ha combattuto per non dimenticare neanche per un secondo di avere avuto una famiglia. E contro gli sguardi cattivi. Quelli degli stessi assassini dei suoi cari e dei loro fiancheggiatori, tornati a vivere a Srebrenica impunemente, senza che la giustizia si sia mai voluta accorgere di loro.

Oggi è necessario che tutte le persone di buona volontà si facciano carico del bagaglio pesante rappresentato dalla eredità di Hatidža, almeno di un pezzetto, per fare in modo che la sua lotta per la giustizia e la verità non si fermi, non svanisca mai. In pochi si sono accorti della sua esistenza. In pochi egualmente della sua scomparsa. Ma dal 22 luglio – ve lo assicuro e lo metto qui per iscritto – il mondo in cui viviamo è molto più povero e ha molte meno speranza di farcela a superare la tempesta nera e cupa che si addensa sulle nostre teste. Capire chi fosse Hatidža e imparare dal suo coraggio può servire a fortificarci e a dare una speranza. A non smettere mai di lottare per la verità, la giustizia e un mondo finalmente migliore.