Per quasi trenta anni, l’Italia ha atteso una legge che punisse la tortura. A nulla servì (allora e per lungo tempo) l’approvazione della Convenzione Onu contro la tortura, che ne prescriveva l’introduzione nel codice penale italiano. Adesso, oltre al fatto che la norma è stata lungamente rimpallata fra Camera e Senato e l’accelerazione verso la sua approvazione è stata impressa dall’esito di una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in merito ai fatti di Genova, la legge approvata in via definitiva alla Camera il 5 luglio 2017 è piena di compromessi.
Il testo prodotto (peggiore di quello dei primi approcci) è lungamente criticabile e la valutazione è, da più parti, negativa. Non convince già a partire dalla definizione di tortura utilizzata: debole e interpretabile secondo una tendenza minimalista, restrittiva, quasi si trattasse di una pratica estrema e perciò negandone l’evoluzione verso forme più sofisticate e subdole.
Così impostata, oltretutto, è una soluzione che presenta serie difficoltà di applicazione: per esempio, ampliando la punibilità a chiunque commetta il reato, il testo rende scivolosa l’individuazione della “tortura di Stato”; poi, prevedendo la tortura come un reato che per essere punito deve presentare comportamenti reiterati, rende non semplice l’applicazione; e infine, richiedendo (per la punibilità) un verificabile trauma psichico conseguente alla tortura, costringe all’impotenza, sia per l’impossibilità (quasi sempre) di produrre perizie dimostrabili sia per i tempi (lunghissimi) che intercorrono tra il compimento dell’atto violento e la sua “apparizione” in tribunale.
«La legge sulla tortura, approvata circa un anno fa, risente di scelte di politica criminale di forte compromesso, che ne indeboliscono complessivamente l’impianto e aprono a una serie di problemi applicativi, minandone l’efficacia sul piano della repressione e della prevenzione», dice a Left Laura Liberto, la coordinatrice nazionale Giustizia per i diritti di Cittadinanzattiva, all’indomani del convegno Il reato di tortura: aspetti giuridici e applicativi, organizzato da Amnesty international e dalla sezione romana del Movimento forense e tenutosi, qualche giorno fa, presso la Corte d’appello civile di Roma.
«Tali scelte sono in buona parte frutto del dibattito fortemente ideologizzato che ha accompagnato il lungo e faticoso iter parlamentare di approvazione e della propaganda sulla introduzione del reato di tortura, presentato come provvedimento “contro la polizia”. Questo approccio è già evidente nell’aver qualificato la tortura come reato comune (cioè un reato che può essere commesso da chiunque, salvo poi prevedere un aggravamento di pena nel caso in cui il fatto sia commesso da pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, nda), laddove, invece, la vera lacuna presente nel nostro ordinamento, che si richiedeva di colmare con l’intervento del legislatore nazionale, era proprio quella relativa alla cosiddetta “tortura di stato”», dichiara Liberto.
«Va comunque riconosciuto che – chiosa la responsabile -, dopo decenni di tentativi andati a vuoto e proposte rimaste nei cassetti, anche in Italia oggi la tortura è punita con uno specifico reato. Nonostante tutte le debolezze della legge, già questo risultato va difeso, soprattutto rispetto ai recenti tentativi di rimetterla in discussione con proposte di abrogazione che riesumano la solita propaganda delle destre, la stessa che ha ostacolato per decenni l’introduzione del reato».