La chiusura dei porti italiani è illegittima, in qualsiasi caso, se rivolta a navi che hanno a bordo persone soccorse in mare che necessitino di sbarcare per avere cure urgenti, o che potrebbero avere diritto a richiedere asilo; ed è illegittima a maggior ragione in mancanza di provvedimenti formali, firmati dal governo, ove sia motivata soltanto dalle esternazioni di singoli ministri, che facciano riferimento generico a non meglio precisate questioni di ordine pubblico, tipo l’“essere sostenuti in maniera occulta da potenze straniere”, da parte delle imbarcazioni che si vorrebbe fermare. Illegittimo è anche considerare la Libia un porto sicuro dove ricondurre dei naufraghi che ne stanno fuggendo, senza rispetto per la possibile procedura di asilo, come pure rifiutare, da parte della guardia costiera italiana, di assumere il coordinamento dei soccorsi perché questi siano svolti dai libici.

Questi i punti più importanti affrontati in una lettera di allarme e denuncia, che un gruppo di associazioni e ong, tra cui Amnesty International, Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione), Intersos, Sos Mediterranée, Medici senza frontiere e Oxfam, ha inviato al presidente della Repubblica, al governo italiano e, per conoscenza, al responsabile Unhcr dell’Europa meridionale e al Commissario per i diritti umani dell’Ue.

Nella lettera viene posto con forza e chiarezza il problema della mancanza, finora, di atti formali firmati di pugno dal governo italiano, in cui la chiusura dei porti, e le sue eventuali motivazioni, siano stabilite per filo e per segno; della possibilità di considerare la non tempestiva indicazione di un porto sicuro da parte della nostra guardia costiera come una violazione del diritto internazionale dei mari, e precisamente della convenzione Sar par. 3.1.9; della sicura violazione, in caso di permanenza prolungata sulla nave di persone che abbiano diritto a cure urgenti, in condizioni di promiscuità e sovraffollamento, dell’art. 3 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo (Cedu) - trattamento inumano e degradante cui possono essere sottoposti soggetti che si trovino in situazione di oggettiva dipendenza da un’autorità di polizia o simili- e, nel caso di minori a bordo, dell’art. 3 della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza- sulla prevalenza, in ogni situazione, del superiore interesse del minore-; della possibilità di configurare come un respingimento collettivo- vietato, ai sensi dell’art. 4 del protocollo n.4 del Cedu- il divieto di attracco a navi di ong cariche di migranti, in particolare per quello che riguarda la violazione delle norme sulla procedura che regola la richiesta di asilo politico, valide per Convenzione di Ginevra, Diritto comunitario, Costituzione e legge italiana; della dubbia legittimità delle motivazioni di ordine pubblico addotte per l’interdizione ai porti delle navi ong; delle svariate ragioni per cui, a tutt’oggi, non è possibile considerare la Libia un porto sicuro.

Facendo solo un breve accenno, e di sfuggita, ai casi forse più noti dell’estate, quelli della nave Aquarius e della Lifeline, la lettera propone all’attenzione tre casi esemplari: quello dell’interdetto ai porti per le imbarcazioni Proactiva e Abstral di Open Arms, del 28-30 giugno scorsi; quello della permanenza in rada a Trapani, tra il 14 e 15 luglio, della nave Protector di Frontex e del pattugliatore Monte Sperone della nostra Guardia di Finanza, entrambi partecipanti ad una missione di sorveglianza del Mediterraneo dell’Unione Europea, con 450 persone soccorse a bordo; quello della permanenza in porto senza permesso di sbarcare dalla nave Diciotti, a Pozzallo, tra l’11 e il 12 luglio scorsi, alle 67 persone soccorse a bordo, che erano state salvate giorni prima dalla nave Vos Thalassa.

Mentre nei casi di Aquarius e Lifeline si configura la mancata assegnazione tempestiva di un porto di sbarco, lasciata in sospeso con trattative infinite, che hanno costretto appunto i naufraghi - persone provate, traumatizzate, fra cui ci sono sempre donne incinte e minori, accompagnati e non - ad una permanenza a bordo, in condizioni di sovraffollamento e promiscuità, maggiore del dovuto, nel primo caso esemplare- quello delle navi Open Arms-, il divieto di accesso ai porti, anche solo per rifornimento o scalo tecnico, è stato disposto prima che le navi potessero raggiungere la zona operativa di soccorso nelle acque libiche, sembra proprio per impedire appositamente che potessero operare. Per la cronaca, tra il 29 e il 30 giugno, risultano più di cento dispersi, mentre la Proactiva ha salvato 59 persone il 30, e la Abstral 65, naufraghi che sono stati poi portati a Barcellona, rinunciando a qualsiasi logorante trattativa col governo italiano, che, nel frattempo, aveva già iniziato a rimpallarsi la responsabilità del coordinamento dei soccorsi con Malta, nonostante il salvataggio fosse avvenuto più presso a Lampedusa. La chiusura dei porti, nel caso in questione, era stata annunciata dal ministro dell’Interno Salvini il 28, quando le navi stavano facendo rotta verso la zona SAR al largo delle coste libiche, con motivazioni “di ordine pubblico, legate al fatto che queste navi sono finanziate in modo occulto da potenze straniere”. Tra il 29 e il 30 poi, mentre la Open Arms si ostinava a chiedere uno scalo tecnico alla guardia costiera di Roma, veniva diramata in serata una nota del Viminale, a firma dell’uomo di fiducia di Salvini, Piantadosi, in cui venivano ribadite con urgenza tutte le motivazioni di ordine pubblico addotte in precedenza, suffragate, se possibile, dall’eventualità di proteste di piazza per la presenza delle navi ong. Fatto sta che, costretta a procedere al minimo dal carburante ridotto, senza scalo tecnico per fare rifornimento, la Proactiva Open Arms non è potuta giungere tempestivamente sul luogo dell’Sos segnalato dalla capitaneria di Malta, nella mattinata del 30 giugno. E fatto sta che, al momento, ancora non risulta da nessuna parte il testo di un Ddl, a firma del ministro dei Trasporti Toninelli, che disponga, con le motivazioni del caso, la chiusura dei porti alle ong. Pare proprio, insomma, che un provvedimento tanto gravido di conseguenze, sia stato messo in pratica sulla sola scorta di mere esternazioni. Tra l’altro, fonti del ministero dei Trasporti avrebbero riferito che “Il decreto era in formazione la sera del 29, quando è arrivata la nota di Piantadosi, ed è evidente che sarebbe decaduto di lì a poche ore, quando Proactiva ha preso naufraghi a bordo, perché il decreto poteva valere solo per l’assetto della nave con il solo equipaggio a bordo”. Dichiarazioni importanti, che, se eventualmente confermate, porrebbero implicitamente un limite oggettivo alla chiusura dei porti. Il ministro Toninelli aveva già, in un precedente question time, dedicato alla vicenda Aquarius, dichiarato che “non c’è stata chiusura dei porti, ma solo la presa d’atto della disponibilità di Valencia ad accogliere la nave”, come se questa soluzione non fosse arrivata dopo ore e giorni di estenuante trattativa, giocata sul ricatto del divieto di approdo, con la nave in alto mare senza una destinazione, e con i suoi naufraghi tutti ancora a bordo, provvisti di viveri dalla guardia costiera, che nel frattempo aveva portato rifornimenti per gentile concessione del governo.

Avere disposto dei divieti così intransigenti, persino al solo fare rifornimento, a navi cariche di naufraghi soccorsi in mare, o che si accingevano a salvare persone in pericolo, sulla base di nessun atto scritto di legge, peraltro con motivazioni tanto strumentali quanto deboli, in fondo, potrà forse un domani essere motivo di azioni legali presso qualche corte di giustizia internazionale contro il nostro Paese. Che non ha l’obbligo legale di accogliere nei suoi porti navi che battano bandiera straniera, ma non quando queste trasportino naufraghi che necessitino di immediato soccorso. Per il diritto dei mari, inoltre, le imbarcazioni straniere hanno diritto al cd. passaggio inoffensivo, che implica, tra l’altro, che non si possa vietare uno scalo tecnico per fare rifornimento di carburante, adducendo pretesti strumentali come le non meglio precisate questioni di ordine pubblico che abbiamo visto sopra.

Da ricordare inoltre che, secondo quanto dichiarato dal responsabile di Open Arms Oscar Camps, alcuni giorni prima della vicenda descritta, domenica 24 giugno, sempre nella prima mattinata, la guardia costiera di Roma aveva segnalato, insolitamente, la presenza di sette gommoni al largo di Al-Khums, dove ha sede la guardia costiera libica e dove hanno base operativa le motovedette donate dall’Italia, in un’area, anche qui insolitamente, piuttosto limitata, di sole 5.7 miglia, come se i gommoni fossero partiti più o meno nello stesso momento dalla stessa località libica. Ebbene, anche in questo caso a Proactiva è stato impedito di giungere in zona tempestivamente, anche in questo caso tramite il divieto di uno scalo tecnico per fare rifornimento. Non solo: è stato impedito anche all’aereo che supporta solitamente l’ong nelle operazioni di ricerca in mare di fare rifornimento a Lampedusa. Il bilancio finale della giornata è stato di più di un centinaio di dispersi, perché pare che non tutti i gommoni siano poi stati recuperati dai libici.

Nel caso delle due navi Protector e Monte Sperone, invece, l’Italia sarebbe venuta meno all’obbligo di fornire porto sicuro e sbarco immediato addirittura nei confronti di navi partecipanti ad una missione regolata da accordi internazionali. Né rappresenta un’attenuante il fatto che ciò sia avvenuto per dar modo di esplicarsi alla trattativa con 8 diversi Paesi europei, circa il punto che ognuno di loro avrebbe dovuto prendere in quota 50 dei 450 naufraghi. Le associazioni che fanno capo alla lettera, pur condividendo il principio della ripartizione per quote dei richiedenti asilo tra paesi europei, definiscono il modo di procedere del governo italiano occasionale ed aleatorio. Infatti la ripartizione per quote dei richiedenti asilo dovrebbe essere un meccanismo permanente, il cui obbligo dovrebbe scattare con carattere di necessità, non essere affidato di volta in volta ad estenuanti trattative, sulla pelle di profughi ancora in mare, in situazione sovraffollata e promiscua, e urgentemente bisognosi di cure mediche, per cui la permanenza prolungata ad libitum in tale situazione può senz’altro costituire trattamento inumano e degradante.

Nel caso Vos Thalassa e Diciotti, come nel più recente caso Asso 28, torna il motivo della possibile intimazione a cedere i naufraghi salvati alle autorità libiche. A tal proposito la Libia, secondo l’IMO (International Maritime Organization), ha ora una guardia costiera, ma non un MRCC, un centro di coordinamento dei soccorsi, pertanto la sua aspirazione a rivendicare una zona Sar di proprio controllo è ancora una pretesa del tutto aleatoria. Secondo gli autori della missiva il respingimento in Libia, diretto od indiretto, ossia avvenuto tramite il rifiuto di assumere il coordinamento delle operazioni Sar, e consegnando di fatto il compito di tale coordinamento alla guardia costiera libica, si configura come un respingimento di gruppo, in cui, oltre a non dar modo al profugo di fare istanza di domanda, non viene fatto sì che ogni domanda possa essere valutata separatamente.

Molte sono, le ragioni per cui la Libia non è e non può essere considerata un porto sicuro: è un Paese nei cui campi profughi vengono compiuti soprusi sistematici, come più volte sottolineato da sentenze di tribunali, in particolare una, del 2012, della Corte di Giustizia Europea, che condanna l’Italia per avere attuato dei respingimenti di massa; è Paese ancora sconvolto da una grave guerra civile; non è dotata di infrastrutture particolarmente efficienti, ed in grado di accogliere in tempi ristretti un elevato numero di persone bisognose di soccorsi; non ha mai sottoscritto la Convenzione di Ginevra, e non dispone nemmeno di una procedura per la richiesta di asilo politico.

Si potrebbe ricordare ancora il caso dell’USS Trenton, di metà giugno, sia per le difficoltà - un iter di giorni - della nave militare americana nell’ottenere un porto di sbarco, sia per il tentativo delle autorità italiane di convincere tutti che quell’operazione di soccorso andava coordinata con la Libia.

Per quello che riguarda nave Diciotti tra l’11 e il 12 luglio scorsi a Pozzallo, come si ricorderà, i 67 migranti soccorsi erano accusati di avere dirottato il rimorchiatore Vos Thalassa, intenzionato a riportarli in Libia. Il ministro dell’Interno Salvini ha rifiutato il permesso di sbarcare alla nave già in porto, fintanto che non sono stati identificati gli autori del presunto ammutinamento. Anche qui, ci si può chiedere se la pretesa di Salvini giustificasse il supplemento di trattamento degradante inflitto alle persone rimaste a bordo. E se il suo atteggiamento non rappresenti un’indebita interferenza con le competenze della magistratura.

Solo il tempo ci dirà se i problemi evidenziati in questa lettera saranno materia di ulteriori controversie, sui mari, tra navi, barconi, guardacoste e capitanerie di porto, e a terra, tra procure e tribunali, avvocati e giudici, da una parte, e i palazzi delle istituzioni e del potere dall’altra.

La chiusura dei porti italiani è illegittima, in qualsiasi caso, se rivolta a navi che hanno a bordo persone soccorse in mare che necessitino di sbarcare per avere cure urgenti, o che potrebbero avere diritto a richiedere asilo; ed è illegittima a maggior ragione in mancanza di provvedimenti formali, firmati dal governo, ove sia motivata soltanto dalle esternazioni di singoli ministri, che facciano riferimento generico a non meglio precisate questioni di ordine pubblico, tipo l’“essere sostenuti in maniera occulta da potenze straniere”, da parte delle imbarcazioni che si vorrebbe fermare. Illegittimo è anche considerare la Libia un porto sicuro dove ricondurre dei naufraghi che ne stanno fuggendo, senza rispetto per la possibile procedura di asilo, come pure rifiutare, da parte della guardia costiera italiana, di assumere il coordinamento dei soccorsi perché questi siano svolti dai libici.

Questi i punti più importanti affrontati in una lettera di allarme e denuncia, che un gruppo di associazioni e ong, tra cui Amnesty International, Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione), Intersos, Sos Mediterranée, Medici senza frontiere e Oxfam, ha inviato al presidente della Repubblica, al governo italiano e, per conoscenza, al responsabile Unhcr dell’Europa meridionale e al Commissario per i diritti umani dell’Ue.

Nella lettera viene posto con forza e chiarezza il problema della mancanza, finora, di atti formali firmati di pugno dal governo italiano, in cui la chiusura dei porti, e le sue eventuali motivazioni, siano stabilite per filo e per segno; della possibilità di considerare la non tempestiva indicazione di un porto sicuro da parte della nostra guardia costiera come una violazione del diritto internazionale dei mari, e precisamente della convenzione Sar par. 3.1.9; della sicura violazione, in caso di permanenza prolungata sulla nave di persone che abbiano diritto a cure urgenti, in condizioni di promiscuità e sovraffollamento, dell’art. 3 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo (Cedu) – trattamento inumano e degradante cui possono essere sottoposti soggetti che si trovino in situazione di oggettiva dipendenza da un’autorità di polizia o simili- e, nel caso di minori a bordo, dell’art. 3 della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza- sulla prevalenza, in ogni situazione, del superiore interesse del minore-; della possibilità di configurare come un respingimento collettivo- vietato, ai sensi dell’art. 4 del protocollo n.4 del Cedu- il divieto di attracco a navi di ong cariche di migranti, in particolare per quello che riguarda la violazione delle norme sulla procedura che regola la richiesta di asilo politico, valide per Convenzione di Ginevra, Diritto comunitario, Costituzione e legge italiana; della dubbia legittimità delle motivazioni di ordine pubblico addotte per l’interdizione ai porti delle navi ong; delle svariate ragioni per cui, a tutt’oggi, non è possibile considerare la Libia un porto sicuro.

Facendo solo un breve accenno, e di sfuggita, ai casi forse più noti dell’estate, quelli della nave Aquarius e della Lifeline, la lettera propone all’attenzione tre casi esemplari: quello dell’interdetto ai porti per le imbarcazioni Proactiva e Abstral di Open Arms, del 28-30 giugno scorsi; quello della permanenza in rada a Trapani, tra il 14 e 15 luglio, della nave Protector di Frontex e del pattugliatore Monte Sperone della nostra Guardia di Finanza, entrambi partecipanti ad una missione di sorveglianza del Mediterraneo dell’Unione Europea, con 450 persone soccorse a bordo; quello della permanenza in porto senza permesso di sbarcare dalla nave Diciotti, a Pozzallo, tra l’11 e il 12 luglio scorsi, alle 67 persone soccorse a bordo, che erano state salvate giorni prima dalla nave Vos Thalassa.

Mentre nei casi di Aquarius e Lifeline si configura la mancata assegnazione tempestiva di un porto di sbarco, lasciata in sospeso con trattative infinite, che hanno costretto appunto i naufraghi – persone provate, traumatizzate, fra cui ci sono sempre donne incinte e minori, accompagnati e non – ad una permanenza a bordo, in condizioni di sovraffollamento e promiscuità, maggiore del dovuto, nel primo caso esemplare- quello delle navi Open Arms-, il divieto di accesso ai porti, anche solo per rifornimento o scalo tecnico, è stato disposto prima che le navi potessero raggiungere la zona operativa di soccorso nelle acque libiche, sembra proprio per impedire appositamente che potessero operare. Per la cronaca, tra il 29 e il 30 giugno, risultano più di cento dispersi, mentre la Proactiva ha salvato 59 persone il 30, e la Abstral 65, naufraghi che sono stati poi portati a Barcellona, rinunciando a qualsiasi logorante trattativa col governo italiano, che, nel frattempo, aveva già iniziato a rimpallarsi la responsabilità del coordinamento dei soccorsi con Malta, nonostante il salvataggio fosse avvenuto più presso a Lampedusa. La chiusura dei porti, nel caso in questione, era stata annunciata dal ministro dell’Interno Salvini il 28, quando le navi stavano facendo rotta verso la zona SAR al largo delle coste libiche, con motivazioni “di ordine pubblico, legate al fatto che queste navi sono finanziate in modo occulto da potenze straniere”. Tra il 29 e il 30 poi, mentre la Open Arms si ostinava a chiedere uno scalo tecnico alla guardia costiera di Roma, veniva diramata in serata una nota del Viminale, a firma dell’uomo di fiducia di Salvini, Piantadosi, in cui venivano ribadite con urgenza tutte le motivazioni di ordine pubblico addotte in precedenza, suffragate, se possibile, dall’eventualità di proteste di piazza per la presenza delle navi ong. Fatto sta che, costretta a procedere al minimo dal carburante ridotto, senza scalo tecnico per fare rifornimento, la Proactiva Open Arms non è potuta giungere tempestivamente sul luogo dell’Sos segnalato dalla capitaneria di Malta, nella mattinata del 30 giugno. E fatto sta che, al momento, ancora non risulta da nessuna parte il testo di un Ddl, a firma del ministro dei Trasporti Toninelli, che disponga, con le motivazioni del caso, la chiusura dei porti alle ong. Pare proprio, insomma, che un provvedimento tanto gravido di conseguenze, sia stato messo in pratica sulla sola scorta di mere esternazioni. Tra l’altro, fonti del ministero dei Trasporti avrebbero riferito che “Il decreto era in formazione la sera del 29, quando è arrivata la nota di Piantadosi, ed è evidente che sarebbe decaduto di lì a poche ore, quando Proactiva ha preso naufraghi a bordo, perché il decreto poteva valere solo per l’assetto della nave con il solo equipaggio a bordo”. Dichiarazioni importanti, che, se eventualmente confermate, porrebbero implicitamente un limite oggettivo alla chiusura dei porti. Il ministro Toninelli aveva già, in un precedente question time, dedicato alla vicenda Aquarius, dichiarato che “non c’è stata chiusura dei porti, ma solo la presa d’atto della disponibilità di Valencia ad accogliere la nave”, come se questa soluzione non fosse arrivata dopo ore e giorni di estenuante trattativa, giocata sul ricatto del divieto di approdo, con la nave in alto mare senza una destinazione, e con i suoi naufraghi tutti ancora a bordo, provvisti di viveri dalla guardia costiera, che nel frattempo aveva portato rifornimenti per gentile concessione del governo.

Avere disposto dei divieti così intransigenti, persino al solo fare rifornimento, a navi cariche di naufraghi soccorsi in mare, o che si accingevano a salvare persone in pericolo, sulla base di nessun atto scritto di legge, peraltro con motivazioni tanto strumentali quanto deboli, in fondo, potrà forse un domani essere motivo di azioni legali presso qualche corte di giustizia internazionale contro il nostro Paese. Che non ha l’obbligo legale di accogliere nei suoi porti navi che battano bandiera straniera, ma non quando queste trasportino naufraghi che necessitino di immediato soccorso. Per il diritto dei mari, inoltre, le imbarcazioni straniere hanno diritto al cd. passaggio inoffensivo, che implica, tra l’altro, che non si possa vietare uno scalo tecnico per fare rifornimento di carburante, adducendo pretesti strumentali come le non meglio precisate questioni di ordine pubblico che abbiamo visto sopra.

Da ricordare inoltre che, secondo quanto dichiarato dal responsabile di Open Arms Oscar Camps, alcuni giorni prima della vicenda descritta, domenica 24 giugno, sempre nella prima mattinata, la guardia costiera di Roma aveva segnalato, insolitamente, la presenza di sette gommoni al largo di Al-Khums, dove ha sede la guardia costiera libica e dove hanno base operativa le motovedette donate dall’Italia, in un’area, anche qui insolitamente, piuttosto limitata, di sole 5.7 miglia, come se i gommoni fossero partiti più o meno nello stesso momento dalla stessa località libica. Ebbene, anche in questo caso a Proactiva è stato impedito di giungere in zona tempestivamente, anche in questo caso tramite il divieto di uno scalo tecnico per fare rifornimento. Non solo: è stato impedito anche all’aereo che supporta solitamente l’ong nelle operazioni di ricerca in mare di fare rifornimento a Lampedusa. Il bilancio finale della giornata è stato di più di un centinaio di dispersi, perché pare che non tutti i gommoni siano poi stati recuperati dai libici.

Nel caso delle due navi Protector e Monte Sperone, invece, l’Italia sarebbe venuta meno all’obbligo di fornire porto sicuro e sbarco immediato addirittura nei confronti di navi partecipanti ad una missione regolata da accordi internazionali. Né rappresenta un’attenuante il fatto che ciò sia avvenuto per dar modo di esplicarsi alla trattativa con 8 diversi Paesi europei, circa il punto che ognuno di loro avrebbe dovuto prendere in quota 50 dei 450 naufraghi. Le associazioni che fanno capo alla lettera, pur condividendo il principio della ripartizione per quote dei richiedenti asilo tra paesi europei, definiscono il modo di procedere del governo italiano occasionale ed aleatorio. Infatti la ripartizione per quote dei richiedenti asilo dovrebbe essere un meccanismo permanente, il cui obbligo dovrebbe scattare con carattere di necessità, non essere affidato di volta in volta ad estenuanti trattative, sulla pelle di profughi ancora in mare, in situazione sovraffollata e promiscua, e urgentemente bisognosi di cure mediche, per cui la permanenza prolungata ad libitum in tale situazione può senz’altro costituire trattamento inumano e degradante.

Nel caso Vos Thalassa e Diciotti, come nel più recente caso Asso 28, torna il motivo della possibile intimazione a cedere i naufraghi salvati alle autorità libiche. A tal proposito la Libia, secondo l’IMO (International Maritime Organization), ha ora una guardia costiera, ma non un MRCC, un centro di coordinamento dei soccorsi, pertanto la sua aspirazione a rivendicare una zona Sar di proprio controllo è ancora una pretesa del tutto aleatoria. Secondo gli autori della missiva il respingimento in Libia, diretto od indiretto, ossia avvenuto tramite il rifiuto di assumere il coordinamento delle operazioni Sar, e consegnando di fatto il compito di tale coordinamento alla guardia costiera libica, si configura come un respingimento di gruppo, in cui, oltre a non dar modo al profugo di fare istanza di domanda, non viene fatto sì che ogni domanda possa essere valutata separatamente.

Molte sono, le ragioni per cui la Libia non è e non può essere considerata un porto sicuro: è un Paese nei cui campi profughi vengono compiuti soprusi sistematici, come più volte sottolineato da sentenze di tribunali, in particolare una, del 2012, della Corte di Giustizia Europea, che condanna l’Italia per avere attuato dei respingimenti di massa; è Paese ancora sconvolto da una grave guerra civile; non è dotata di infrastrutture particolarmente efficienti, ed in grado di accogliere in tempi ristretti un elevato numero di persone bisognose di soccorsi; non ha mai sottoscritto la Convenzione di Ginevra, e non dispone nemmeno di una procedura per la richiesta di asilo politico.

Si potrebbe ricordare ancora il caso dell’USS Trenton, di metà giugno, sia per le difficoltà – un iter di giorni – della nave militare americana nell’ottenere un porto di sbarco, sia per il tentativo delle autorità italiane di convincere tutti che quell’operazione di soccorso andava coordinata con la Libia.

Per quello che riguarda nave Diciotti tra l’11 e il 12 luglio scorsi a Pozzallo, come si ricorderà, i 67 migranti soccorsi erano accusati di avere dirottato il rimorchiatore Vos Thalassa, intenzionato a riportarli in Libia. Il ministro dell’Interno Salvini ha rifiutato il permesso di sbarcare alla nave già in porto, fintanto che non sono stati identificati gli autori del presunto ammutinamento. Anche qui, ci si può chiedere se la pretesa di Salvini giustificasse il supplemento di trattamento degradante inflitto alle persone rimaste a bordo. E se il suo atteggiamento non rappresenti un’indebita interferenza con le competenze della magistratura.

Solo il tempo ci dirà se i problemi evidenziati in questa lettera saranno materia di ulteriori controversie, sui mari, tra navi, barconi, guardacoste e capitanerie di porto, e a terra, tra procure e tribunali, avvocati e giudici, da una parte, e i palazzi delle istituzioni e del potere dall’altra.