Aver portato le frontiere della Fortezza Europa nei Paesi di transito dell'immigrazione, tanto è stato devastante per i diritti umani quanto ha fatto bene ai bilanci dell'industria militare del Nord del mondo e al destino politico dei governi populisti e xenofobi. Il bilancio di tre anni di esternalizzazione in un dossier curato da Sara Prestianni dell'ufficio Immigrazione dell'Arci

Più di 25mila persone riportate nell’inferno e 600 morti nel solo mese di maggio 2018. L’esternalizzazione delle frontiere – ovvero la collaborazione con i Paesi di origine e transito per espellere facilmente i migranti o bloccarli prima dell’arrivo – nuoce gravemente alle vite dei migranti ma anche ai diritti dei cittadini dei Paesi in cui sono state delocalizzate le frontiere della Fortezza Europa e non fa certo bene alle “democrazie” che vogliono rendere invisibili i profughi messi in fuga dalle loro stesse politiche commerciali. «Esternalizzare significa spingere le responsabilità giuridiche e politiche dei nostri Paesi più a sud nella cartina del mondo, alla ricerca di una totale impunità o nel tentativo di farla ricadere su altri Paesi». A tre anni dal vertice della Valletta dove furono sancite le linee guida dell’esternalizzazione, l’Arci fa un bilancio dell’impressionante subappalto europeo a regimi come quelli nigerino, sudanese, tunisino (sono più famosi gli accordi con Libia, Egitto e Turchia) per richiamare l’attenzione di società civile e governi sugli effetti negativi di queste strategie e le loro implicazioni in merito alle violazioni sistematiche dei diritti fondamentali di migranti e popolazioni interessate. Si tratta di “La pericolosa relazione tra migrazione, sviluppo e sicurezza per esternalizzare le frontiere in Africa“, un documento d’analisi curato da Sara Prestianni dell’ufficio Immigrazione dell’Arci nell’ambito del progetto di monitoraggio Externalisation Policies Watch che ha previsto missioni sul campo tra il dicembre 2016 e luglio 2018.

Tanto è devastante per i diritti umani, quanto fa bene ai bilanci dell’industria militare del Nord del mondo e al destino politico dei governi populisti e xenofobi che, «con la guerra ai migranti, alimentano l’immaginario di un nemico da combattere alle nostre porte, e che con la loro presenza nel continente africano si giocano la partita dell’influenza territoriale». “Aiutarli a casa loro” significa fornire carri armati ed elicotteri, sistemi biometrici e satellitari, eserciti e truppe: il rapporto segnala come il processo di esternalizzazione del controllo della frontiera europea in Africa sembra evolversi verso una predominanza della dimensione militare e della sicurezza. EucapSahel, missione “civile” per “modernizzare” le forze dell’ordine di Niger e Mali, da forza antiterrorismo è diventata centrale nella politica di gestione delle frontiere – poi ci sono le missioni militari italiane in Libia e Niger, quindi la forza congiunta G5 Sahel che – oltre ad un contributo di 100 milioni di euro – si è vista attribuire ulteriori 500 milioni di euro nel summit del marzo 2018. Si tratta di cifre ingenti che potrebbero essere usate per una reale politica di cooperazione allo sviluppo o di integrazione, come ha detto proprio a Left Selly Kane, responsabile Immigrazione della Cgil nazionale.

La militarizzazione dell’esternalizzazione, però, non solo serve a bloccare gli arrivi in Europa ma coincide con gli interessi dell’industria italiana della sicurezza e con la concorrenza interna all’Ue per una presenza geostrategica in quelle aree. La trasformazione di Frontex nell’European Border and Coastguard Agency è solo una delle tante proposte “suggerite” dalle lobby militar-industriali alla Commissione europea. Avverte il rapporto Arci (dal quale attingiamo con ampi stralci): «L’attuazione del processo di esternalizzazione deve essere osservato anche come esempio di riduzione dello spazio democratico all’interno dell’Europa stessa e degli Stati membri. Per molte delle attività e dei fondi attribuiti per l’attuazione di tali politiche è stato aggirato il controllo democratico del Parlamento europeo cosi come, a livello italiano, si è evitata la ratificazione degli Accordi Bilaterali da parte delle Camere, in flagrante violazione dell’Art 80 della Costituzione».

Che poi «le procedure di selezione e monitoraggio dei progetti finanziati dal Trust Fund risultino «non trasparenti e i processi di valutazione privi di coerenza» (come denunciato nel rapporto Concord) non sembra scuotere la coscienza dei governi europei avvezzi a scandali di vario tipo. Per questo il rapporto sottolinea «il compito fondamentale delle associazioni della società civile di analizzare queste politiche, riportando le responsabilità giuridiche e politiche ai diretti responsabili».

L’analisi dell’uso dei fondi europei e italiani per attività di controllo delle frontiere – anche grazie alla retorica “aiutiamoli a casa loro” – evidenzia una parte dei progetti finanziati con l’Eutf (Centro operativo Regionale di supporto al processo di Khartoum e all’Iniziativa nel Corno d’Africa) prevede la formazione di forze di polizia e guardie di frontiera, la diffusione del sistema biometrico per la tracciabilità delle persone e la “donazione” di elicotteri, veicoli e navi di pattuglia, apparecchiature di sorveglianza e monitoraggio, «aprendo cosi alla relazione sempre più strutturata tra migrazione, sviluppo e sicurezza». L’obiettivo dell’istituzione del Fondo fiduciario era quello di ottenere maggior collaborazione da parte dei governi locali nel controllo dei flussi attraverso il finanziamento di programmi di sviluppo (sia nei Paesi di origine che di transito) e mediante il rafforzamento delle forze di polizia lungo le rotte. Una strategia europea «drammaticamente efficace»: nel 2017 il numero di ingressi irregolari in Europa è diminuito del 67%. Una diminuzione che si accompagna ad una pesante riduzione del rispetto dei diritti sia dei migranti, in mare e in terra, che della popolazione di molti dei Paesi africani coinvolti. Italia e Ue hanno calpestato tanto le Convenzioni internazionali di cui sono firmatarie che i diritti fondamentali, tra cui il diritto alla vita. La chiusura della rotta del Mediterraneo ha portato l’Italia, grazie al contributo europeo, a subappaltare le operazioni di salvataggio alla Guardia costiera libica, pur cosciente, come evidenziato dalla decisione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, del profondo legame di questo corpo con le milizie, nonché delle violenze perpetrate sia in mare che sulla terraferma. La campagna denigratoria delle Ong che salvano vite in mare è funzionale alle politiche di esternalizzazione delle frontiere.

Se i migranti vengono esposti a rischi sempre maggiori non se la passano meglio i cittadini dei Paesi di transito contro i quali vengono adoperati gli “aiuti a casa loro” gentilmente forniti dall’Europa. Una dinamica visibile sia nel Mediterraneo orientale, fra Turchia e Siria (l’Ue è particolarmente affabile di fronte alla deriva dittatoriale di Erdogan suo partner nel blocco di profughi afgani e siriani), sia sulla rotta del Mediterraneo Centrale. Armarsi per diventare il gendarme d’Europa è una scusa per rafforzare l’arsenale nazionale, spesso a discapito dei loro stessi cittadini. Un accordo tra Italia ed Egitto del settembre 2017, nell’ambito del progetto Itepa, prevede l’istituzione di un centro di formazione per alti funzionari di polizia incaricati della gestione delle frontiere e dell’immigrazione dai Paesi africani presso l’Accademia di polizia egiziana. Con buona pace della battaglia per verità e giustizia per Giulio Regeni.

Ricapitolando: i governi Ue hanno firmato accordi per legittimare i governi di tali Paesi chiudendo un occhio sulle violazioni dei diritti umani e finanziando e formando aguzzini già abbondantemente specializzati nella repressione e negli abusi dei diritti umani.

Il Sudan è al centro dello scacchiere delle rotte migratorie, luogo di transito obbligato per i migliaia di rifugiati del Corno d’Africa ma anche paese di origine. La collaborazione della Fortezza Europa con Al Bashir «è uno strumento di repressione dei rifugiati obbligati a transitare da quel paese per fuggire, ma anche per i cittadini sudanesi in Europa, a rischio di sistematica e delle popolazioni rimaste nel paese che, con il ruolo rafforzato del dittatore sudanese, rischiano un ulteriore aumento della repressione». Un attivista incontrato durante la missione effettuata da Arci a Khartoum nel dicembre del 2016 spiega: «Non ci sarà mai giustizia per il Darfour fino a quando i vostri Stati considereranno Al Bashir un interlocutore credibile per il controllo dei migranti invece di chiudere ogni dialogo con lui. Per Al Bashir l’esternalizzazione delle frontiere è un modo per far vacillare l’embargo economico e politico imposto dopo i molteplici mandati di arresto emessi dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità.

Nel 2016 il dittatore sudanese ha dispiegato una nuova forza paramilitare – i Rapid support forces (Rsf) – alla frontiera nord con la Libia per il controllo dei migranti in uscita. Tra le fila dei RSF ci sono molti capi della milizia Jan Jaweed, tra le forze che più si sono sporcate le mani di sangue per l’eccidio nel Darfour e ora riciclati dallo stesso Al Bashir. Dalla fine del 2017 è stato annunciato il dispiegamento dei RSF anche nella regione di Kassala, nella zona di confine con l’Eritrea. «Di fatto la presenza di questi miliziani non fa altro che aumentare il numero d’interlocutori a cui i migranti sono obbligati a pagare tangenti e le violenze che sono costretti a subire». Refugees Deeply denuncia come personaggi chiave del regime sono i principali complici del traffico di migranti. Coloro che fingono davanti ai funzionari europei di controllare le frontiere sono di fatto coloro che gestiscono il passaggio. Una formula che l’Europa già conosceva all’epoca di Gheddafi che chiudeva e apriva le frontiere libiche «lucrando sulla vita di chi cercava di trovare rifugio, in nome della collaborazione con la UE». A Khartoum il clima di terrore che vivono i rifugiati eritrei è palpabile, vivono nascosti per evitare di essere arrestatie sanzionati o dalla polizia “dell’ordine pubblico” (di matrice islamica) che in tribunali speciali giudica comportamenti considerati illegali, o per aver violato il Sudan’s Passport and Immigration Act per cui incombono multe fino a360$. Il contributo europeo in Sudan per il controllo della migrazione ammonta a 200 milioni di euro. Nei campi avvengono continue incursioni da parte di sicari del regime di Afewerky o di trafficanti che rapiscono gli eritrei obbligandoli poi a telefonare alla famiglia in Europa, promettendola liberazione solo in cambio di soldi e progetti (come BMM e ROCK) consentono al regime sudanese di aggirare l’embargo di armi.

Il report è un pozzo di informazioni. Per esempio quella dell’accordo di polizia firmato il 3 agosto del 2016 dal capo della nostra Polizia Gabrielli con il suo omologo sudanese che ha permesso di attuare il charter Torino-Khartoum del 24 agosto carico di sudanesi, molti provenienti dal Darfour, arrestati in retate a Ventimiglia. Le autorità italiane sarebbero rimaste totalmente impunite per questa violazione dei diritti umani se non fosse per l’importante azione di Asgi e Arci che, in collaborazione con i parlamentari europei della GUE, hanno incontrato alcuni dei sudanesi espulsi da Torino portando il loro caso davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Le polizie di Francia e Belgio si comportano proprio come quella italiana.

Il Niger è il principale beneficiario del Fondo Fiduciario Europeo per l’Africa – quasi 200 milioni di progetti finanziati ad oggi a cui si aggiunge la recente promessa di ulteriori 500 milioni nella regione del Sahel – e del nostrano Fondo Africa – 50 milioni di euro in cambio dei quali il Niger si impegna a creare nuove unità specializzare necessarie al controllo dei confini e nuovi posti di frontiera – così come dei fondi allo sviluppo: è ormai la frontiera sud dell’Europa, «il laboratorio più avanzato della politica di esternalizzazione». La criminalizzazione del “traffico illecito dei migranti” sancito nel 2015 obbliga a nascondersi chi tenta di andare verso l’Algeria o la Libia e in alcuni casi di imbarcarsi poi verso Italia e Spagna. I ghetti si spostano sempre più alla periferia della città, le partenze si fanno di notte e alla spicciolata. I costi del viaggio aumentano. Un ex passeur, citato nello studio, dice: «Se prima andare in Libia costava 150mila FCFA e in Algeria 75mila, ora, con l’aumento dei controlli ed il rischio i farsi arrestare, i prezzi sono saliti: 400mila per la Libia e 150mila per l’Algeria». L’Algeria ha risposto con sistematiche e violentissime retate di migranti ed il loro abbandono alla sua frontiera sud senza distinzioni in base allo status dei migranti. Il Teneré, come il Mediterraneo, si sta trasformando in un deserto di morte. Ma come spiega in un’inchiesta Giacomo Zandonini, in Libia, nonostante la criminalizzazione, si è continuato a entrare.

L’Ue, con il Fondo Fiduciario, ha cercato di proporre delle alternative di riconversione per spingere i passeurs a lasciare l’attività, ma a una cifra che risulta ridicola a fronte dei milioni di FCFA che un passeur poteva guadagnare trasportando uomini e donne nel deserto.

In Niger, uno dei Paesi più poveri al mondo seppure ricco di materie prime qualiuranio, oro e petrolio, si fronteggiano anche gli interessi italiani contro quelli francesi. Bazoum, ministro dell’interno nigerino sta negando all’Italia l’accesso dei suoi militari nel nord del paese. Annunciata prima come operazione Deserto Rosso, poi rinnegata, la missione militare italiana in Niger è stata infine ripresentata al voto al Parlamento a Camere sciolte nel febbraio 2018, con un budget di 30 milioni di euro per 9 mesi di presenza di 400 uomini nel nord del paese. Riproposta dalla neo ministra Trenta con riferimento ad un eventuale appoggio agli americani che proprio ad Agadez stanno costruendo un enorme base per i droni armati. Lo stop alla presenza armata italiana è probabilmente legata ad una opposizione francese che non cede tanto facilmente la roccaforte di Madama, al confine con la Libia.

Infine la Tunisia, collaboratore dell’Ue nel ruolo di intercettazione dei migranti partiti dalle coste della vicina Libia e perciò rifornita di mezzi navali. Un contributo del Fondo Africa, istituito nel 2017, per un totale di 12 milioni di euro, è transitato dal MAECI al Dipartimento di Sicurezza del Ministero degli Interni alla voce “Migliorare la gestione delle frontiere e dell’immigrazione, inclusi la lotta al traffico di migranti e le attività di ricerca e soccorso”. La Commissione ha annunciato lo stanziamento di ulteriori 55 milioni di euro in Marocco e Tunisia in un programma che sarà gestito dal Ministero degli Interni Italiano e ICMPD (InternationalCentre for Migration Policy Development). Se la Tunisia dimostra un alto grado di collaborazione nelle attività di monitoraggio delle proprie coste e di identificazione dei suoi cittadini in vista dell’espulsione, sembra però rigettare l’idea di costruzione di punti di sbarco dei migranti partiti dalla Libia sul suo territorio. Asgi, Arci e l’associazione tunisina FTDES, nel maggio 2018, hanno monitorato le procedure di espulsione dei cittadini tunisini dall’aeroporto di Palermo. Numerose le violazioni dei diritti di cui sono stati vittime durante la loro permanenza in Italia, ed in particolare detenzione illegale senza convalida del giudice all’interno di una struttura – l’hotspot – che manca di base giuridica nella legislazione italiana, nonché spesso vittime di trattamenti degradanti. I tunisini lamentano la presenza di sonniferi nel cibo e l’inganno usato per l’espulsione, facendo credere loro che dopo il trasferimento a Palermo sarebbero stati poi liberati. Lo stesso Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, a seguito del monitoraggio effettuato sulle operazioni di rimpatrio, esprime viva preoccupazione per la «pratica di non avvisare gli interessati per tempo dell’imminente rimpatrio, e cioè con un anticipo utile a verificare eventuali aggiornamenti della propria posizione giuridica, prepararsi non solo materialmente ma anche psicologicamente alla partenza e avvisare i familiari del proprio ritorno in patria». A nessuno è stato permesso difare richiesta d’asilo in una logica assurda per cui l’Italia considera i tunisini provenienti da un paese sicuro, in contrasto con la convenzione di Ginevra per cui lo studio di ogni caso deve essere fatto sulla base della singola storia personale e non sulla base del paese di origine. Con i polsi bloccati da fascette di plastica, i tunisini sono scortati da due poliziotti ciascuno fino all’aeroporto di Enfidha, più discreto di quello di Tunisi. Spesso picchiati e insultati, vengono poi rilasciati, senza neanche un centesimo in tasca. Molti sono al secondo, terzo viaggio.