La prossimità con il degrado è qualcosa con cui il Sud ha imparato a convivere dagli anni Settanta. Non ci fa più caso. Non ha a che fare con l’abitudine al brutto, quanto con l’aver avuto dei sogni troppo ambiziosi ed averli visti sfumare. Il non finito è un simbolo. Può essere facilmente frainteso e interpretato come passività e inerzia, mentre si tratta di un monumento all’ultimo guizzo di vitalità del Meridione.
Il non finito è case senza intonaco, appartamenti senza finestre, tondini che fuoriescono dal cemento eroso, che dovevano contenere vita, ma che di vita sono rimasti privi. È anche balconi senza ringhiere, ma con le antenne satellitari sui tetti. È un palazzo di quattro piani in cui l’unico appartamento ultimato è al piano terra. È un cinema che doveva nascere nel bel mezzo di un paese popoloso, ma che non ha mai azionato il proiettore.
Se volete avere un’immagine chiara guardate Dogman, l’ultimo film di Matteo Garrone. Il non finito di Castel Volturno per i personaggi è casa, è focolare, hanno trovato al suo interno una loro dimensione, mentre per lo spettatore quello stesso paesaggio è la cornice perfetta del degrado sociale e umano.
Per chi abita i non finiti nella realtà è la stessa cosa: quelle strutture non sono bruttezza. Chi abita questi luoghi, chi li ha progettati e messi in piedi lo ha fatto con amore, con una sorta di ottimistica proiezione di un futuro per sé e per la sua famiglia. Se proprio si deve loro imputare una colpa, semmai, è stata quella di non avere avuto la percezione netta di quanto stesse accadendo. La maggiore parte di questi edifici incompiuti sono nati negli anni Sessanta e Settanta. Perché? Perché c’era una voglia di credere che i piani per l’industrializzazione del Sud avrebbero consentito agli emigranti di tornare al paese natio, ai giovani di restare e a quelle case di avere un senso.
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