Non sempre le patologie psichiatriche in età scolare sono intercettate per tempo. Una ricerca del Garante per l’infanzia rivela quali sono i punti critici del sistema socio-sanitario. Filomena Albano: «Manca una rete tra Asl, scuola, servizi sociali e tribunali»

Filomena Albano li chiama “invisibili”. Sono quegli adolescenti «più fragili e vulnerabili» che per l’Autorità garante per l’infanzia e adolescenza (Agia) «presentano forme di disturbo psichiatrico di cui troppo poco si parla e che vengono scarsamente intercettati». Per la prima volta, l’organo monocratico istituito nel 2011 per attuare la Convenzione Onu sui diritti del fanciullo ha deciso di occuparsi della salute mentale degli adolescenti, perché «non c’è salute senza salute mentale». Un gruppo di lavoro della Consulta nazionale dell’Agia ha realizzato il documento La salute mentale degli adolescenti presentato a metà marzo. Ne parliamo con Filomena Albano, il magistrato che nel 2016 è stato nominato titolare dell’Agia. Quali sono i problemi più urgenti emersi dallo studio? «Le diagnosi tardive e la difficoltà nel distinguere quello che è il disagio psichico dell’adolescenza, che in una certa qual misura è fisiologico, dal vero e proprio disturbo patologico». È un mondo sconosciuto, continua il Garante. Non esiste un monitoraggio nazionale, né tantomeno esistono dati quantitativi del fenomeno. «Questa è la prima criticità che abbiamo evidenziato. Ma solo con la conoscenza del fenomeno si può intervenire». Il gruppo di lavoro si è concentrato su 8 città: Bassano del Grappa, Bergamo, Bologna, Ferrara, Milano, Padova, Palermo e Roma. Aree molto diverse del territorio nazionale quanto a organizzazione sanitaria, sociale e scolastica ma che mostrano un dato omogeneo. «I ragazzi più vulnerabili sono purtroppo gli adolescenti adottati, quelli finiti nel circuito penale, giovanissimi autori di reato, i figli al centro di fortissimi dissidi familiari e i minori stranieri non accompagnati, per i quali – sottolinea Albano con amarezza – il viaggio già di per sé può rappresentare una concausa grave delle loro condizioni di salute mentale».
E se a Bologna gli operatori sottolineano la necessità di instaurare un rapporto più continuo con la scuola intesa «come interlocutore unitario», al di là delle singole esperienze virtuose, e a Milano ci si lamenta dell’assenza di “luoghi di parola” per gli adolescenti, mentre a Roma si richiede più continuità nei percorsi psicoterapeutici nella sanità pubblica, ovunque vengono evidenziate gravi lacune, come riporta il documento. Una di queste, spiega Albano, è «l’insufficienza dei posti letto nei reparti di neuropsichiatria infantile». Spesso gli adolescenti finiscono nei reparti per adulti, «ma questo è impensabile, può provocare danni ulteriori», denuncia il Garante. Le cifre però parlano chiaro: su tutto il territorio nazionale i posti letto di ricovero ordinario di neuropsichiatria infantile sono 336 rispetto ai 5mila della pediatria e ai 5mila della psichiatria. «Solo un’esigua parte dei ricoveri di adolescenti con acuzie psichiatrica avviene in un reparto di neuropsichiatria infantile», si legge nello studio dell’Agia. Secondo la Sinpia (Società italiana di neuropsichiatria infantile) solo un minore su due riesce ad avere una diagnosi nei servizi territoriali, solo due su tre un trattamento terapeutico riabilitativo e solo uno su dieci riesce ad «effettuare il passaggio a un servizio per l’età adulta».
Il problema sta anche, e soprattutto, a monte, nella prevenzione. «I segnali che mandano i ragazzi, se letti tempestivamente, possono far scattare interventi precoci. Ma quello che manca – e questa è un’altra criticità – è la comunicazione tra i soggetti territoriali: le Asl, la scuola, le comunità, le case famiglia, l’autorità giudiziaria, i servizi sociali». Se per esempio non funziona il collegamento tra la scuola, dove si possono cogliere i primi segni di disagio, e i servizi sociosanitari, il rischio è quello di una diagnosi tardiva e quindi di una cura inefficace. Quando poi la diagnosi viene effettuata, può verificarsi, continua Albano, la mancanza «di una tempestiva presa in carico del soggetto». E così pure risulta carente il collegamento tra l’ambito residenziale e quello territoriale: che ne è di un adolescente, ricoverato in fase acuta in una struttura, una volta dimesso? «Non deve ricominciare da capo, deve essere garantita la continuità terapeutica, in modo che la storia del ragazzo venga letta dall’inizio alla fine», sostiene con forza il Garante che ricorda la solitudine delle famiglie che non sono in rete né con i servizi sociali né con quelli sanitari.
Il documento presenta al governo e alle istituzioni, raccomandazioni, cioè linee guida, atti di soft law. È un primo passo, in attesa di avere «strumenti più incisivi nei confronti degli interlocutori», si augura Filomena Albano. Dal documento intanto emerge un’assenza preoccupante: quella degli adulti. Questo vuoto da cosa dipende? È perché ci si accorge adesso dei diritti dei minori o perché è in atto una crisi più generale degli adulti? Bisogna mutare completamente prospettiva nei confronti di coloro che il Garante preferisce chiamare «persone di minore età» piuttosto che minori. «Prima venivano considerati oggetto di protezione. Con la Convenzione Onu si è ribaltato tutto. Sono soggetti di diritto e questo presuppone un cambiamento radicale: gli adulti non possono più considerare i figli come un’appendice di se stessi. Lo sanno bene le coppie che adottano. I figli sono persone con la loro storia, ma questo, ripeto, richiede una maturazione culturale profonda». Un cambiamento, in questo senso, riguarda i minori stranieri non accompagnati. La legge 47/2017 ha introdotto la figura dei tutori sociali, semplici cittadini “microgaranti” dei ragazzi con i quali instaurano una relazione. Quattromila domande arrivate, corsi di formazione attivati e Tribunali per i minorenni che adesso devono nominare i tutori. «Sono volontari che possono intercettare preventivamente i problemi dei minori stranieri – conclude il Garante -, è un modello di cittadinanza attiva che è una speranza».

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Articolo pubblicato su Left n.14 del 6 aprile 2018