Partiamo subito da un dato di fatto: atteggiarsi da rockstar durante un funerale di Stato, usare gli applausi come randello, fare ombra alle bare, invitare (da addetto stampa del Presidente del Consiglio) i giornali a enfatizzare gli applausi con un sms inviato ai giornalisti, leggere i quotidiani il giorno dopo che titolano come avrebbe voluto Casalino, avere bisogno di un nemico per ispirare protezione (e nel dubbio indicarne qualcuno nel mucchio) e confondere la giustizia con la vendetta fa schifo. Tanto. Anche se fa schifo perfettamente in linea con il sentire comune che annusiamo nei bar, nelle discussioni sui social, nelle pessime uscite di qualche pessimo ministro. Niente di nuovo, insomma, se non fosse che qui i morti sono ancora caldi e verrebbe da sperare che possano servire da argine. E invece niente.
Però ridurre politicamente tutta la vicenda del crollo del ponte Morandi a questo è di una miopia che fa spavento e credere che basti scimmiottare quegli altri per erodergli voti rinunciando consapevolmente alla complessità che ci governa (e che la politica dovrebbe essere in grado di governare) è il modo migliore per garantire al governo in carica un agevole e lungo futuro.
Dietro il crollo di Genova ci sono decine di questioni che andrebbero discusse, analizzate e soprattutto raccontate. C’è la privatizzazione selvaggia di un centrosinistra che ha svenduto (o comunque ha avvallato l’idea della svendita come buona e giusta soluzione) un pezzo del patrimonio pubblico con l’ulteriore aggravante di “avere flirtato – per citare l’azzeccatissima definizione di Alessandro Gilioli – più o meno apertamente con grossi gruppi imprenditoriali e bancari, così diventando parte integrante di una rete politica-economica di potere”. C’è anche la narrazione (anche questa con colpevole favoreggiamento politico di un certo centrosinistra) che tutto il pubblico faccia schifo e tutto il privato invece sia bello e funzioni. C’è, semplificando, il neoliberismo strisciante di chi lo alimenta fingendo (male) di combatterlo e intanto si inchina al capitalismo di chi vede le strade, gli ospedali e i servizi primari solo attraverso la lente del fatturato che possono portare.
Ci sono le bugie. Tante, da tutte le parti, ben prima dell’era delle fake news. C’è il governo Berlusconi-Lega come responsabile della concessione della rete autostradale (che il governo Prodi aveva immaginato ben diversa) con il decreto legge 59 del 2008: convenzioni con le concessionarie autostradali approvate togliendo ogni possibilità di verifica agli organismi di controllo e riducendo gli spazi di intervento per il pubblico, compresa quella sottoscritta con Autostrade per l’Italia. C’è la consapevolezza da parte del ministero delle Infrastrutture, della Direzione generale per la vigilanza sulle concessionarie autostradali a Roma, del Provveditorato per le opere pubbliche di Piemonte-Valle d’Aosta-Liguria a Genova e di Autostrade per l’Italia che da almeno sei mesi sapevano della corrosione dei tiranti ceduti sul ponte di Genova (come scritto nel verbale della riunione con cui il primo febbraio 2018 il Provveditorato alle opere pubbliche di Genova rilascia il parere obbligatorio sul progetto di ristrutturazione presentato da Autostrade che ha scovato l’Espresso). C’è anche l’assurda nomina da parte del ministro Toninelli di alcuni di quelli che già sapevano e che ora sono nella commissione d’indagine ministeriale e in fondo indagheranno se stessi.
E poi c’è questa nefasta sicumera per cui nessuno alza mai la mano a dire “sì, forse ci siamo sbagliati” o “siamo la vostra opposizione però di questo potremmo parlarne” per cui chi ha perso le elezioni (perché evidentemente ritenuto inaffidabile, a torto o ragione) non sente mai il bisogno di mettersi in discussione. Così alla fine qui fuori sembra di assistere alla presunta sinistra che difende i capitalisti (tra l’altro senza capitale, anomalia tutta nostrana).
E poi ci sarebbero i morti. E il rispetto che gli si dovrebbe. Ma questo ormai l’abbiamo perso da un pezzo.
Buon lunedì.