Vi racconto una storia.
Lei è una ragazza, che se ne scappa dal suo Paese, convinta di meritarsi altro rispetto al quasi niente che le si offriva. Mi dice “partita senza sapere la lingua, sapevo dire solo sì e no, non spaevo cosa avrei trovato”. È rimasta otto giorni nella capitale, dormendo solo qualche ora: “ho dormito due ore a notte”, mi spiega. Ha conosciuto una donna, Paola, onesta e gentile. Buonista, direbbe qualcuno. Le ha dato consigli e l’ha aiutata. Poi la protagonista di questa storia è finita in periferia: stanza condivisa, otto persone dentro, di nazionalità diverse.
“Voglio descriverti le emozioni”, mi ha detto: pochi soldi in tasca, giornate passate a capire come muovermi e come imparare la lingua, giornate in cui usciva di casa solo per provare a superare la paura, la sensazione di non farcela. Trova un lavoro, umilissimo. Le serve comunque per pagarsi lo studio della lingua. Se lo fa bastare. Mi racconta del terrore di essere giudicata dai famigliari lontani, della sensazione di non poter risolvere gli accidenti che capitano alla sua famiglia e lei è così distante, la sensazione di vuoto in un Paese che non è il tuo e non sai dove appoggiarti.
La storia di questa donna finisce bene: trova un lavoro ma soprattutto incontra una persona con gli occhi puliti, senza il fumo e la rabbia, una di quelle che vede le persone per quello che potrebbero diventare piuttosto che per quello che sembrano, una di quelle che non giudica (o addirittura odia) la faccia impastricciata dai casi della vita. Ora lavora. È felice, anche se le manca il suo Paese.
Fermi tutti, però. Lei si chiama Annalisa. La capitale di cui mi parla è Londra. Ed era l’unica italiana in quella stanza di otto persone. La sua lettera è una spremuta di umanità: “Portare mamma in aeroporto, – mi scrive – una vecchietta di 70 anni, che ogni volta che prende l’aereo mi fa perdere anni di vita, tra preoccupazioni ed incazzature… ma viene qua per vedermi… non so se conosci quella sensazione quando va via, la guardi entrare nei tornelli e non sai se la rivedrai ancora, se l’hai abbracciata abbastanza, orgogliosa del suo coraggio, che è anche il tuo e triste per farle fare questo, farle subire la mia assenza… che un giorno sarà per me la sua… spiazza, fa pensare a tutto quello che perdi…”. Ha un cuore così Annalisa.
E stamattina mi viene da pensare a come l’avremmo accolta noi, se davvero abbiamo gli occhi puliti per vederle, le Annalisa che incontriamo. E mi assale pena e speranza. Pena per la fuliggine che ci ha fatto disimparare a scorgere quanto le storie e le persone siano universali ma anche speranza, sì speranza, perché ci salveranno i viaggiatori che squarciano la certezza dei nostri piccoli, gretti e falsamente benpensanti cortili.
Buon mercoledì.