Dietro le due tragedie dei braccianti di Foggia si celano politiche miopi e inefficienti. Oltre agli interessi di imprenditori agricoli che si arricchiscono con il lavoro nero, e della Grande distribuzione organizzata che controlla gli elementi chiave della filiera

Due schianti, due boati nelle strade della Capitanata, a pochi giorni di distanza. Medesima dinamica: furgoni stipati di braccianti di ritorno dalla raccolta dei pomodori si schiantano contro un tir. Ci troviamo nella provincia di Foggia, ed è l’inizio di agosto. A perdere la vita sono 16 operai agricoli stranieri. La loro morte si fa simbolo di questa ennesima estate di sfruttamento e violenza padronale sugli immigrati nelle campagne italiane. Una violenza quotidiana, ininterrotta, sommersa. Di cui media, istituzioni e opinione pubblica si accorgono però solo quando arriva, puntuale come i ritmi che governano l’agricoltura, la tragedia, capace di irrompere nelle tv degli italiani.

Abbiamo però scoperto un dettaglio non di poco conto, in questa vicenda, che ancora non è emerso dalle cronache. Proprio nel foggiano, una prima sperimentazione relativa al trasporto dei braccianti verso i loro luoghi di lavoro – in condizioni di sicurezza e di legalità – era da mesi sul tavolo delle istituzioni. E li è rimasta. I pulmini, quelli in regola, sicuri e legali, sono rimasti fermi. E 16 persone sono morte.

Per capire perché una buona idea non si è tradotta in prassi, è necessario fare un passo indietro al settembre del 2015 quando si è messa in moto la macchina della Rete del lavoro agricolo di qualità. Voluta dall’allora premier Matteo Renzi e dal ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina, avrebbe dovuto promuovere l’agricoltura virtuosa, e osteggiare così la piaga del caporalato. In che modo? Permettendo alle aziende agricole di iscriversi alla Rete – previa autocertificazione di essere in regola col fisco, di non avere precedenti per sfruttamento del lavoro, di rispettare i contratti. Una vetrina di imprese pulite. A coordinare i lavori della Rete, una cabina di regia presieduta dall’Inps, e partecipata da numerose realtà, tra cui vari ministeri, sindacati, organizzazioni di categoria. Una whitelist, dicevamo, che ha avuto sin da subito un destino infelice, come già in altre occasioni abbiamo spiegato sul nostro settimanale (v. Left n. 39 del 30 settembre 2017). Nel 2016, le aziende iscritte erano solo 2mila, su un totale di circa un milione e mezzo e di almeno 100mila potenzialmente interessate. A settembre 2017 le iscrizioni salivano a 2.800. Oggi sono circa 3.500. Numeri che perpetuano il racconto di un palese fallimento.

D’altronde, per quale motivo le ditte – che dall’iscrizione ricevono solo l’ennesimo “bollino di qualità”, senza nessun reale aumento del potere contrattuale rispetto a fornitori, industriali e giganti della grande distribuzione – dovrebbero iscriversi?

Di questo limite ne è consapevole anche la Flai Cgil, che per prima si è impegnata nella promozione della Rete. E che ora lavora a renderla più appetibile. «Abbiamo avuto alcuni esperimenti che hanno funzionato in questo senso, e vanno replicati», spiega Giovanni Mininni, segretario nazionale Flai e membro della cabina di regia nazionale della Rete. «In Emilia Romagna, nei bandi legati al Piano di sviluppo rurale alle aziende iscritte alla Rete veniva attribuito un punteggio più alto, stessa cosa è accaduta con il bando per rivitalizzare il mercato di San Teodoro a Roma. Ciò ha portato ad impennate di iscrizioni. E perché, seguendo questo indirizzo, non fare in modo ad esempio che le mense scolastiche scelgano frutta eticamente a posto, raccolta dalle aziende che si sono autocertificate presso la Rete, che hanno dimostrato di essere in regola? Chissà cosa potrebbe accadere, se meccanismi del genere partissero in tutta Italia».

Il grimaldello nelle mani del governo italiano per sfidare i caporali non consta solo della iscrizione a una lista tramite autocertificazione. La legge 199 approvata ad ottobre 2016, meglio conosciuta come “anticaporalato”, oltre a irrobustire l’impianto repressivo per i fenomeni di sfruttamento del lavoro, prevede il potenziamento della Rete tramite sezioni territoriali in tutte le province. Nelle sezioni, istituzioni e parti sociali dovrebbero promuovere modalità sperimentali di intermediazione fra domanda e offerta di lavoro e servizi di trasporto da e verso i campi. Ma i due incidenti nel foggiano ci dicono che siamo ben lontani da un’entrata a pieno regime di questi meccanismi. Eppure è noto che potrebbero contribuire a  rendere inutile la figura del caporale. Un ruolo che si è consolidato – è bene ricordarlo – a causa dello smantellamento del collocamento pubblico in agricoltura, e dell’insufficienza cronica di mezzi pubblici per spostarsi nelle zone rurali. Dove lo Stato si ritrae, il caporalato, lo sfruttamento del lavoro e i rischi per i lavoratori proliferano.

Ad aggiungere sconcerto allo sconcerto c’è il fatto che nel marzo scorso si è insediata la prima (e a oggi unica) sezione territoriale. Indovinate dove? Proprio a Foggia. E proprio qui – a poco meno di due anni dall’entrata in vigore della legge – era sulla via dell’approvazione il primo progetto pilota per garantire lo spostamento dei braccianti in sicurezza. Cosa ne rallentava l’entrata in funzione?

«I fondi per poter acquistare i furgoni erano stati trovati, sarebbero stati anticipati dalla Regione e poi reperiti grazie ai Fami (Fondo asilo migrazione e integrazione, ndr) – spiega nei dettagli Mininni -. L’ipotesi era di costituire una cooperativa di giovani che li avrebbero guidati, magari gli stessi braccianti. Alcuni di loro, tra coloro che sono ospiti del centro autogestito Casa Sankara, erano pronti a partecipare alla sperimentazione. Ma in tutti questi mesi le associazioni datoriali, Confagricoltura, Coldiretti e Cia, non hanno mai fornito nomi di aziende disponibili a ricevere e far lavorare gli operai agricoli da questa filiera legale. Mai. Neanche una».

Abbiamo sottoposto la questione a rappresentanti delle tre associazioni ma solo Cia e Coldiretti hanno voluto rispondere ai nostri quesiti. Il direttore della sezione di Foggia della Cia, Danilo Lo Latte, ha così replicato: «Non ci sono arrivate richieste di questo tipo e quello degli spostamenti dei braccianti non era il tema principale della discussione. La priorità della sezione era un’altra, ossia individuare luoghi dove strutturare moduli abitativi per favorire l’accoglienza dei lavoratori stranieri».

Giuseppe De Filippo, presidente provinciale della Coldiretti di Foggia, ha invece proposto una soluzione diversa: «Se ci fosse veramente voglia di istituire una forma di trasporto alternativa, dovrebbe essere il pubblico a prendere l’iniziativa. Si realizzino una decine di linee che partono all’alba dai ghetti, e poi vediamo se funziona. Come Coldiretti abbiamo consegnato al prefetto Mariani un elenco di zone di interesse dove i veicoli potrebbero fare tappa». Il punto è che «l’imprenditore è intimorito, è intimidito, di andare a parlare con l’ente pubblico». Forse perché questo significherebbe sottoporsi a dei controlli non graditi? Fatto sta che l’esperimento non è mai partito. E 16 persone sono morte.

In tutto questo, mentre la Rete stenta a decollare, il governo giallonero ha iniziato a muovere le sue pedine nell’ambito dell’agricoltura, almeno a parole. Da un lato il ministro del Lavoro Luigi Di Maio il 3 settembre a Foggia ha lanciato l’idea di «un piano triennale per il contrasto al caporalato», che punti non solo a potenziare i controlli ma anche a «far funzionare i centri per l’impiego» e a implementare «un meccanismo dei trasporti», tutto ciò dopo aver già potenziato l’uso dei voucher in agricoltura (v. Sentimenti a pag. 26); dall’altro, il titolare del dicastero delle Politiche agricole, Gianmarco Centinaio (quello della casella mail “terronsgohome”), in una intervista a La Verità ha definito il caporalato come una «questione di ordine pubblico». «È bene che la gestisca il ministero dell’Interno di cui mi fido ciecamente», ha aggiunto. Una frase che lascia presagire il peggio. Vale a dire un’ondata di sgomberi dei ghetti che colpisca gli sfruttati anziché lo sfruttamento, lasciando intatte le dinamiche economiche e “politiche” attraverso cui si genera questo crimine. 

Nemmeno una parola riguardo lo strapotere della grande distribuzione organizzata (Gdo), che dall’alto impone i suoi prezzi e (indirettamente o meno) incide sul costo del lavoro. A denunciarlo, da tempo, è l’associazione Terra!, che con inchieste e campagne di sensibilizzazione punta a responsabilizzare politica e consumatori sulle pratiche sleali adottate dai supermercati. Come le aste elettroniche inverse, bandite dalla Gdo: i fornitori fanno una prima offerta di prezzo di vendita della passata di pomodoro o dell’olio, la distribuzione prende l’offerta più bassa e la usa come base d’asta per una seconda asta online al ribasso. È così che possono arrivare negli scaffali prodotti come una bottiglia di passata di pomodoro a 39 centesimi, un litro di latte a 59 centesimi, una confezione di würstel a 19 centesimi. Una cifra che viene spartita tra distribuzione, logistica, industria, e che arriva solo in minima parte al primo anello della catena: l’agricoltura e i suoi lavoratori.

«È chiaro che se costringi l’agricoltore a venderti un prodotto a pochi spicci, questo poi da qualche parte si deve rifare. E gli elementi su cui si può farlo sono qualità del prodotto e costo del lavoro», spiega Fabio Ciconte, direttore di Terra! onlus. «Ma finalmente, nel mondo della grande distribuzione e in parte della politica si è aperto un bel dibattito sul tema. Di aste si è parlato anche durante la manifestazione dei sindacati a Foggia l’8 agosto». Una sensibilità che cresce anche tra chi fa la spesa. «La Gdo ha una grande capacità di leggere le intenzioni del consumatore e adeguarsi. Vedi la rapidità nel cambio di prodotti sugli scaffali all’indomani dell’allarme sull’olio di palma. Per questo le nostre scelte, insieme all’intervento della politica, possono fare la differenza».

Di strapotere della grande distribuzione parla anche la rete Campagne in lotta, che dal 2011 opera nei campi per sostenere le lotte e i processi di autorganizzazione dei braccianti: «C’è una macchina dell’irregolarità che non ha mai smesso di funzionare ed è frutto dell’attuale sistema di gestione dell’immigrazione, oltre che dello strapotere della grande distribuzione organizzata sulle filiere agro-industriali». Per questo motivo «chiedere documenti e contratti per i lavoratori signfica, da una parte, puntare il dito contro le attuali politiche migratorie, e dall’altra esigere che le categorie che più traggono profitto dall’agricoltura – le organizzazioni dei produttori, le industrie e la grande distribuzione organizzata – sostengano i costi di casa e trasporto per i lavoratori e le lavoratrici, e più in generale garantiscano loro condizioni eque». Secondo Campagne in lotta, dunque, «sequestri, arresti e indagini non scalfiscono di una virgola l’organizzazione del comparto agro-industriale, che si serve dell’irregolarità fatta sistema per spremere profitti prima di tutto dai braccianti, siano essi africani, rumeni o bulgari. Non solo chi lavora in campagna è segregato in campi, ghetti o casolari, isolati e controllati in forme più o meno esplicite e istituzionalizzate. Le emergenze create ad arte su immigrazione e criminalità generano un clima di ostilità e ignoranza diffuse, che cercano di impedire a chi è sfruttato di fare fronte comune». E sul futuro, segnato dal tandem Salvini – Centinaio? «Quel che questo governo sarà in grado di fare dipenderà anche da ciò che sapremo mettere in campo noi».

L’articolo di Leonardo Filippi è tratto da Left in edicola dal 7 settembre 2018


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