Che sia stato lui o che sia merito del suo social manager Luca Morisi poco importa: il ministro dell’inferno Matteo Salvini ci ha messo poco a capire che la democrazia italiana si basa sulla popolarità come unico metro di giudizio e ha messo in campo tutte le armi che servono per raggiungerla il prima possibile.

Il meccanismo a ben vedere non è nemmeno così complesso: si sale alla ribalta nazionale con qualche filotto di sparate che ti rendano riconoscibile (non dimentichiamolo, Salvini divenne famoso a livello nazionale per avere proposto da consigliere comunale a Milano di istituire delle carrozze della metropolitana riservate agli extracomunitari, fu quello il momento in cui l’Italia scoprì Salvini), si sgomita nel proprio partito invocando il cambiamento (o la rottamazione, eh sì), si individua un nemico facile facile da offrire in pasto alla propria comunità per potersi cementare (prima erano i terroni, oggi sono gli extracomunitari, domani sarà l’Europa ma il giochetto è sempre lo stesso), si dipinge la propria crescita elettorale come inarrestabile e tendente alla maggioranza assoluta (anche questa l’avete già sentita, lo so, lo so), si detta l’agenda dei media trovando almeno una provocazione al giorno, si racconta di avere tutti i poteri forti contro risultando un salvatore e infine ci si preoccupa di governare la percezione fingendo di governare il Paese.

Dalla sua Salvini ha una caratteristica in più: ha capito che i social, usati con furbizia, diventano notizia, ancora di più in un Paese in cui i giornali troppo spesso si limitano a essere il megafono di tutto ciò che si è già letto in rete nel giorno prima.

Sulla gestione dei social ha raccontato benissimo la strategia salviniana Alessandro Orlowski, uno dei più influenti hacker italiani che da anni studia campagne virali in rete: «La Lega ha lavorato molto bene - dice in una sua intervista a Rolling stone - durante l’ultima campagna elettorale. Ha creato un sistema che controlla le reti social di Salvini e analizza quali sono i post e i tweet che ottengono i migliori risultati, e che tipo di persone hanno interagito. In questo modo possono modificare la loro strategia attraverso la propaganda. Un esempio: pubblicano un post su Facebook in cui si parla di immigrazione, e il maggior numero di commenti è “i migranti ci tolgono il lavoro”? Il successivo post rafforzerà questa paura. I dirigenti leghisti hanno chiamato questo software La Bestia».

In realtà non c’è nessuna comunicazione: si tratta di cogliere i sentimenti degli elettori (più facilmente i più feroci, i peggiori e meno controllabili) e solleticarli allo sfinimento per spremere voti. Niente di nuovo, verrebbe da dire, se non fosse che ciò che prima era affidato al fiuto dei consulenti oggi può essere perfettamente quantificato da una serie di algoritmi. Così oggi Salvini può prevedere esattamente quale sarà la reazione alla sua prossima dichiarazione semplicemente perché se l’è fatta scrivere direttamente dai suoi seguaci. Se un giorno si spanderà un’incontrollabile paura per i ragni probabilmente vedremo il ministro dell’Interno impugnare una scopa di saggina per spiaccicarne qualcuno sul muro.

Ma c’è un aspetto che forse sfugge: governare sulla popolarità significa avere fondamenta cedevolissime pronte a sbriciolarsi alla prossima percezione più potente o alla prima paura ritenuta vicina al potente di turno. È successo così con Berlusconi prima e con Renzi poi: basta raccontarli vicini (che sia vero o no poco importa) ai prossimi presunti invasori per spostarli dal cassetto degli eroi a quello dei servi.

La picchiata solitamente è veloce e inarrestabile.

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L'editoriale di Giulio Cavalli è tratto da Left in edicola dal 14 settembre 2018

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Che sia stato lui o che sia merito del suo social manager Luca Morisi poco importa: il ministro dell’inferno Matteo Salvini ci ha messo poco a capire che la democrazia italiana si basa sulla popolarità come unico metro di giudizio e ha messo in campo tutte le armi che servono per raggiungerla il prima possibile.

Il meccanismo a ben vedere non è nemmeno così complesso: si sale alla ribalta nazionale con qualche filotto di sparate che ti rendano riconoscibile (non dimentichiamolo, Salvini divenne famoso a livello nazionale per avere proposto da consigliere comunale a Milano di istituire delle carrozze della metropolitana riservate agli extracomunitari, fu quello il momento in cui l’Italia scoprì Salvini), si sgomita nel proprio partito invocando il cambiamento (o la rottamazione, eh sì), si individua un nemico facile facile da offrire in pasto alla propria comunità per potersi cementare (prima erano i terroni, oggi sono gli extracomunitari, domani sarà l’Europa ma il giochetto è sempre lo stesso), si dipinge la propria crescita elettorale come inarrestabile e tendente alla maggioranza assoluta (anche questa l’avete già sentita, lo so, lo so), si detta l’agenda dei media trovando almeno una provocazione al giorno, si racconta di avere tutti i poteri forti contro risultando un salvatore e infine ci si preoccupa di governare la percezione fingendo di governare il Paese.

Dalla sua Salvini ha una caratteristica in più: ha capito che i social, usati con furbizia, diventano notizia, ancora di più in un Paese in cui i giornali troppo spesso si limitano a essere il megafono di tutto ciò che si è già letto in rete nel giorno prima.

Sulla gestione dei social ha raccontato benissimo la strategia salviniana Alessandro Orlowski, uno dei più influenti hacker italiani che da anni studia campagne virali in rete: «La Lega ha lavorato molto bene – dice in una sua intervista a Rolling stone – durante l’ultima campagna elettorale. Ha creato un sistema che controlla le reti social di Salvini e analizza quali sono i post e i tweet che ottengono i migliori risultati, e che tipo di persone hanno interagito. In questo modo possono modificare la loro strategia attraverso la propaganda. Un esempio: pubblicano un post su Facebook in cui si parla di immigrazione, e il maggior numero di commenti è “i migranti ci tolgono il lavoro”? Il successivo post rafforzerà questa paura. I dirigenti leghisti hanno chiamato questo software La Bestia».

In realtà non c’è nessuna comunicazione: si tratta di cogliere i sentimenti degli elettori (più facilmente i più feroci, i peggiori e meno controllabili) e solleticarli allo sfinimento per spremere voti. Niente di nuovo, verrebbe da dire, se non fosse che ciò che prima era affidato al fiuto dei consulenti oggi può essere perfettamente quantificato da una serie di algoritmi. Così oggi Salvini può prevedere esattamente quale sarà la reazione alla sua prossima dichiarazione semplicemente perché se l’è fatta scrivere direttamente dai suoi seguaci. Se un giorno si spanderà un’incontrollabile paura per i ragni probabilmente vedremo il ministro dell’Interno impugnare una scopa di saggina per spiaccicarne qualcuno sul muro.

Ma c’è un aspetto che forse sfugge: governare sulla popolarità significa avere fondamenta cedevolissime pronte a sbriciolarsi alla prossima percezione più potente o alla prima paura ritenuta vicina al potente di turno. È successo così con Berlusconi prima e con Renzi poi: basta raccontarli vicini (che sia vero o no poco importa) ai prossimi presunti invasori per spostarli dal cassetto degli eroi a quello dei servi.

La picchiata solitamente è veloce e inarrestabile.

L’editoriale di Giulio Cavalli è tratto da Left in edicola dal 14 settembre 2018


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