Oggi come nel 1945 il canto dei partigiani risuona ancora. E si capisce perché. Dal consiglio comunale di Massa a Rocca di Papa fino a piazza Duomo di Milano per opporsi all'onda nera e xenofoba

Bella, vero, la nostra copertina di questa settimana? Bella e urgente dentro questo tempo di ferocia liberista e di rigurgiti fascisti. Bella ciao. Come le mondine, prima. Come i partigiani che di quelle mondine erano fratelli o fidanzati. L’ultima versione incisa, nientemeno, è di Tom Waits dentro un album del suo chitarrista Marc Ribot (Songs of Resistance 1942-2018) che ne intona in italiano l’incipit del ritornello e alcuni versi in una versione più lenta e struggente di quella tradizionale. Nel video ufficiale le immagini della Casa Bianca, delle prigioni Usa e delle manifestazioni di Black Lives Matter contro la discriminazione delle minoranze e la police brutality. Perché l’Onda nera parte da entrambe le rive dell’Atlantico e Bella Ciao è un canto di resistenza conosciuto ovunque. Quando Kobane fu liberata dall’Isis l’hanno cantata i combattenti kurdi festeggiando dopo mesi d’assedio. L’hanno cantata il 17 settembre in consiglio comunale a Massa per chiedere le dimissioni di un tizio di Forza Italia che aveva proposto lo spostamento del busto del partigiano Vico lontano dal municipio e qualcuno aveva incappucciato quel monumento nell’atrio.  Centinaia di antifascisti hanno fischiato contro la Lega e Fratelli d’Italia, gridando il numero dei morti per la libertà, chiamandoli «fascisti», fino a quando il consiglio comunale è stato interrotto per impossibilità di proseguire i lavori.

A ritroso nei giorni, domenica scorsa, oltre 130 coristi provenienti da vari Paesi europei hanno intonato anche Bella Ciao, alla Risiera di San Sabba, l’unico campo di concentramento italiano, nell’ambito delle manifestazioni cominciate nei giorni scorsi a Trieste per commemorare l’entrata in vigore delle leggi razziali il 18 settembre 1938. E martedì, nell’ottantesimo, hanno cantato con chi era voluto andare in piazza Unità d’Italia a portare un fiore dove si trova una targa commemorativa che ricorda l’annuncio fatto da Benito Mussolini della promulgazione delle leggi.

L’hanno cantata, poche settimane fa, in Abruzzo, a Vasto, per sfidare il tenutario di un locale che mandava “a palla” Faccetta Nera e qualche giorno dopo l’hanno sentita anche i migranti bloccati sulla Diciotti perché era cantata dagli antirazzisti che hanno forzato a Catania il cordone dei carabinieri sul molo. E alcuni di loro l’hanno riconosciuta a Rocca di Papa dalle voci di donne e uomini che erano andati ad accoglierli per dire che non siamo tutti come Salvini o come il 75% degli elettori M5s che approvano le sue politiche respingenti che fanno annegare le persone nel Mediterraneo e le perseguitano se hanno l’ardire di sopravvivere. Qualcuno (un consigliere comunale di centrodestra) ha storto il naso a Ruvo di Puglia quando l’ha ascoltata dalle Voci Bulgare Angelite al Talos Festival. Avrebbero voluto Faccetta Nera per par condicio come se la pace e la guerra, l’umanità e l’orrore fossero paragonabili. Ma vaglielo a spiegare. Chissà se l’ha riconosciuta Orban il giorno che è andato a trovare il fiero alleato Salvini a Milano e gliel’hanno cantata in Piazza Duomo.

Ritenute “socialmente pericolose” dalla questura un gruppo di donne che, lo scorso 20 maggio a Roma cantavano Bella Ciao alla Garbatella per protestare contro la presenza di un banchetto di Casa Pound. Era un poliziotto anche l’uomo che ha impedito all’attrice Ottavia Piccolo di entrare alla Mostra di Venezia con indosso un foulard dell’Anpi. Sempre a Roma è capitato che alcuni genitori si lamentassero per la scelta della canzone nella celebrazione del Giorno della Memoria in una scuola a due passi dal luogo dove iniziò la Resistenza romana. Chi non ha memoria non ha futuro e, infatti, il futuro non è più quello di una volta.

Ha fatto il giro del web anche la cena dei Bleus, i calciatori della nazionale francese, in cui i campioni del mondo hanno cantato proprio la canzone simbolo della resistenza al nazifascismo, che vive un’ennesima giovinezza grazie a una nota serie tv spagnola, La casa di carta, in cui “Bella ciao” fa da filo conduttore alla storia, cantata a squarciagola dai protagonisti mentre sono impegnati a stampare denaro nella sede della Zecca spagnola. La Casa di carta è la serie tv non in lingua inglese più vista della pur breve storia di Netflix: dopo la messa in onda sui social è scoppiata la mania e fioccano i video di reinterpretazioni casalinghe. Il 15 maggio la stessa Netflix per strizzare l’occhio al mercato arabo, realizza un video con fan sauditi della serie dal titolo “Bella Ciao: da Gedda a Berlino”, con la guest star Amine El Berjawi. Maitre Gims, popolare cantante franco-congolese ne propone anche lui una sua versione. Mario Gotze, uno dei più talentuosi centrocampisti tedeschi, intona il pezzo su Instagram, così come il suo collega calciatore Alexandre Pato. Magari, in giro per il mondo, ci sarà anche chi non ne afferra il senso e si mette a sculettare ascoltandone versioni remix (quella francese di Florent Hugel, 24 milioni di visualizzazioni su Youtube, 33 milioni su Spotify, o quella brasiliana, realizzata da MC MM e DJ RD con un testo modificato che al momento conta ben 171 milioni di visualizzazioni e 44 milioni di ascolti).

Ma resta un canto resistenziale che, per decenni, ha incarnato l’anomalia italiana quella di un Paese che s’era liberato dai nazifascisti e s’era dotato della più avanzata costituzione dal punto di vista dei diritti sociali. Ma in cui la resistenza era rimasta incompiuta per via della pesante ipoteca imposta dagli Usa, per la pervasività del Vaticano e per quell’amnistia di Togliatti che garantì, in sostanza, la continuità tra l’apparato statale del Ventennio e quello dell’Italia Repubblicana. Bella ciao fu cantata nel 1974 perfino al Congresso nazionale della Democrazia cristiana.

La storia di Bella Ciao «è un romanzo mai finito», ha scritto una ventina di anni fa Cesare Bermani, uno dei ricercatori e storici del canto e della cultura popolare. Addirittura per un periodo è stata un rompicapo perché non si riusciva a capire se le mondine lo avessero insegnato ai partigiani o viceversa. Se le ragazze l’avessero ripresa dal repertorio militaresco dei fanti della Grande guerra. Questa vicenda è contenuta in un saggio avvincente di Bermani pubblicato da Il De Martino, bollettino dell’omonimo istituto “per la conoscenza critica e la presenza alternativa del mondo popolare e proletario”. L’aria di Bella ciao era stata sentita in mezza Europa con varianti del testo «che si trasformano e si intrecciano con una serie di storie di gruppo o individuali. La ricerca delle sue origini ha visto sul campo intellettuali come Gianni Bosio, Roberto Leydi, Franco Coggiola, Ivan Della Mea. Il canto popolare è sempre stato materiale fluido che ha riciclato musiche di altri canti e trasformato le parole secondo le necessità del momento anche capovolgendone il senso originario. È successo anche a Faccetta nera in Francia: “bell’abissina, anche per te bandiera rossa s’avvicina, quando saremo vicino a te, la libertà noi ti daremo senza il re”.

Dopo la Resistenza Bella ciao ha continuato a vivere e trasformarsi trovando negli anni del dopoguerra i propri canali di diffusione. Campeggi dei Pionieri che ne avevano una loro versione Mamma Ciao, festival internazionali della gioventù, le feste dei partiti della sinistra e nelle case del popolo, il lavoro delle corali, dei canzonieri sociali (come il Nuovo Canzoniere Italiano che intitolò  Bella Ciao uno spettacolo che debuttò al Festival di Spoleto ed ) con versioni in molte lingue e interpreti come Yves Montand, Gigliola Cinquetti, Anna Identici perfino Claudio Villa, fino alla versione combat rock più famosa ora, quella dei Modena City Ramblers. Sostiene Bermani che a metà degli anni 60 ci si trovò di fronte a quella che Hobsbawn definì “tradizione inventata”: il ricorso a materiali antichi per costruire tradizioni inventate destinate a fini altrettanto nuovi. Erano i tempi del primo centrosinistra, col Psi che pose come precondizione alla Dc il riconoscimento dei valori della Resistenza.

Nel ventennale della Liberazione, il 1965, l’Anpi sfilò in piazza il 25 aprile con i fazzoletti tricolore e iniziò una fase di imbalsamazione di quei valori, come se la Resistenza fosse stata «un’unità aconflittuale fra formazioni», osserva Bermani nell’imperdibile saggio La vera storia di Bella ciao: «Fischia il vento, la canzone di gran lunga più diffusa al Nord durante la Resistenza, non poteva certo essere il canto di quell’operazione politica di ricompattamento su posizioni moderate del partigianato attorno ai valori nazionali della Resistenza». Fischia il vento era il canto delle formazioni comuniste e socialiste, sulle note di una melodia russa inneggiava alla “rossa primavera”. Bella Ciao è orecchiabile, coinvolgente (si possono battere le mani nel ritornello) e, soprattutto, non allude allo scontro di classe ma solo ai valori dell’unità nazionale contro “l’invasor”, ecco perché – secondo lo studioso – si diffuse rapidamente nel nuovo quadro politico e sociale di quell’epoca.
Le cose cambiano e oggi Bella Ciao segnala un desiderio nuovo di resistenza e liberazione “anche se è ancora buio, appena prima dell’alba, ci aspettano ancora giorni cantati”.