Belgrado è ormai parte attiva e consapevole del circuito capitalistico e si barcamena con sapienza da almeno quindici anni tra due imperi. Quello statunitense e quello russo, strizzando di tanto in tanto l’occhiolino all’Unione europea

l paesaggio scorre monotono fuori dal finestrino del pulmino. Dentro l’aria è viziata. Il caldo estivo continentale prende alla gola e il tutto è reso più complicato dalla colazione salata che i miei compagni di viaggio consumano ora avidamente, dopo aver sonnecchiato per un po’.

Abbiamo lasciato Belgrado da oltre un paio d’ore e ci dirigiamo verso il confine bosniaco-erzegovese dopo aver superato la Sava. Sono ormai quasi le otto del mattino. La monotonia è interrotta giusto dal susseguirsi di campi di mais. Ben piantati, davanti a ogni appezzamento, cartelli con il nome di una nota multinazionale con sede negli Stati Uniti. Le colture transgeniche sono ormai diffuse in Serbia, simbolo strisciante di un capitalismo sempre più presente in quello che qualche illuso continua a ritenere l’ultimo baluardo contro l’imperialismo a stelle e strisce. La Serbia da anni è parte attiva e consapevole del circuito capitalistico e si barcamena con sapienza da almeno tre lustri tra due “imperi”, quello statunitense e quello russo, strizzando di tanto in tanto l’occhiolino all’Unione europea.

A bordo girano di mano in mano vassoi colmi di pita al formaggio, burek grondanti grassi e qualsiasi altro manicaretto che creerebbe il panico nelle certezze di ogni assennato medico occidentale. Gli odori di carne e cipolla si mischiano nell’aria già viziata del combi e solo la visione del posto di confine mi rende la speranza di potercela fare.

Il viaggio fin qui è andato liscio: due pulmini sfrecciano per la…

Il reportage di Luca Leone prosegue su Left in edicola dal 21 settembre 2018


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