Il docufilm di Alfredo Lo Piero che denuncia i drammatici effetti dello stop alle navi Ong nel Mediterraneo esce nelle sale il 27 settembre

«Il signor Ministro ringrazia per l’invito, ma non potrà intervenire». È con queste parole che si apre la conferenza stampa dopo la proiezione di La libertà non deve morire in mare, documentario prodotto e diretto da Alfredo Lo Piero appena presentato alla Casa del Cinema di Roma e realizzato in collaborazione con Guardia costiera, Medici senza frontiere e Guardia di finanza, e con il patrocinio di Amnesty international Italia. A leggere lo scarno comunicato del ministero degli Interni è Giovanni Costantino di Distribuzione Indipendente, che avrà il non facile compito di far circolare questo bel film nel paese in cui la Tv di Stato ha interrotto la fiction sul modello di accoglienza realizzato a Riace dal sindaco Mimmo Lucano.

Che la nota ufficiale di un dicastero, in una simile occasione, possa suonare così ironica è evenienza rara. Quasi quanto avere un ministro che ha sdoganato “neo-linguismi” come “pacchia” e “taxi del mare” per liquidare e denigrare il fenomeno epocale e drammatico descritto anche da questo film. Un documentario girato in opposizione, fin dal titolo, a quell’ondata mediatica mainstream che asseconda, quando non la agisce consapevolmente, l’operazione di stravolgimento della realtà che in questi anni ha visto i disperati protagonisti in fuga da guerre e carestie, e che spesso considerano l’Italia un puro luogo di transito, trasformarsi in delinquenti, portatori di violenza e malattia e perfino terroristi. Nel Mediterraneo, insieme alla libertà del titolo e a centinaia di bambini, donne e uomini che anche mentre scriviamo continuano quasi ogni giorno a morire, sta affogando anche la verità. «L’ho fatto per mia figlia», dice il regista. «Perché aveva paura di fare il bagno con l’uomo nero».

Il film è stato girato in un 2016 che oggi sembra lontanissimo. C’erano ancora le navi delle Ong libere di circolare per salvare vite, non c’era ancora il decreto Minniti che ha cambiato per sempre la politica italiana in tema di migrazione, trasformando il filtro dell’accoglienza in barriera per il respingimento. Il regista Lo Piero e il direttore della fotografia Giuseppe Bennica si trovano a Lampedusa come “luogo di ispirazione” e all’improvviso s’imbattono in un’operazione in corso, ovvero il recupero di centinaia di naufraghi dispersi in mare dopo il ribaltamento, a poche centinaia di metri dalla costa, un’imbarcazione con più di cinquecento persone a bordo. Nasce così una testimonianza preziosa, girata con le poche attrezzature disponibili in quel momento e con l’ostacolo delle «nostre lacrime e dei singhiozzi, che rendevano tutto più difficile». Lacrime e singhiozzi che si aggiungono a quelle dei soccorritori, militari e civili. Decine di donne con bambini, pianti e urla fanno da colonna sonora a un tappeto di lenzuola bianche che ricoprono file e file di corpi riversi in terra.

Nel film le testimonianze degli scampati si alternano a quelle dei residenti, fra i pochi italiani ai quali la verità, nella sua banale ferocia, non ha bisogno di essere portata, perché la vedono con i propri occhi, senza doversi preoccupare se credere ad altro, a quei veleni circolanti nel vecchio e nel nuovo etere che intossicano la percezione. «Queste persone che arrivano sono noi» esclama nel film puntandosi l’indice sul petto Pietro Bartolo, l’ormai celebre medico dell’isola (già apparso in Fuocoammare di Gianfranco Rosi), che poi non risparmia la lettura della lettera di un “hater” che lo riempie di insulti per il semplice fatto di fare il suo mestiere. Ennesimo segno di quell’odio pilotato che mira a seminare cecità propagandosi come un virus del pensiero.

«Non ci sono dubbi sul fatto che operare il soccorso in mare, sempre e comunque, sia un dovere». Ad aver preso la parola in conferenza stampa non è una persona qualsiasi, ma un alto ufficiale della Guardia di finanza. Il colonnello Paolo Emilio Recchia. Nel film sono incluse anche le testimonianze di giovani ufficiali sia della GdF che della Guardia costiera, che però a questa proiezione non ha mandato nessun rappresentante. «In quei momenti emerge la nostra parte umana», dice uno di loro fra le numerose scene di salvataggio in mare. Anche il barcone della disperazione è presente nel film.  Mentre scorrono le immagini subacquee, un testimone riferisce la sua ispezione del relitto ancora pieno di cadaveri, e la sua impotenza nel fare la sola cosa pensabile: portarli in superficie. «Guardavano tutti verso l’alto. Erano morti». Questo è il momento in cui, da spettatori, insieme al dolore si prova un indicibile vergogna.

«L’operazione Mare nostrum è stata abbandonata. Il dispositivo che noi delle Ong avevamo predisposto dal 2015 è stato completamente smantellato» dichiara il Direttore generale di Medici senza frontiere Gabriele Eminente. E, presagendo un’ulteriore fase acuta del conflitto nella regione siriana, aggiunge «pensare di poter arginare le partenze nei prossimi tempi è un’illusione». A quest’illusione, poter fermare un fenomeno epocale come la migrazione in corso dal Sud del mondo, si somma la disumanità con cui gli ultimi governi in carica hanno tentato di farlo, con l’intenzione di risolvere non una crisi umanitaria senza precedenti ma “il problema” dell’impatto economico e sociale sull’Italia. La storia insegna cosa può succedere quando le persone si inizia a guadarle come “un problema”.

Le barche della disperazione sono sempre lì, in mare. Ma anziché diverse centinaia di migranti ciascuna ne portano a decine. Facendosi sempre più piccole, diventano sempre più invisibili. Annullare il problema si fa più facile. Gli accordi con la Libia e le misure conseguenti, le inchieste sulle Ong (che a nulla di giuridicamente rilevante hanno portato) e la chiusura dei porti hanno fatto il resto, attirandoci il richiamo dell’Onu per le “inadempienze italiane in materia di rispetto dei diritti umani dei migranti”.

È la «fabbrica della paura», la definisce il portavoce nazionale di Amnesty international Italia Riccardo Noury, che appare anche nel film. E sta operando a pieno regime. Una carenza cronica d’informazione che si può curare soltanto facendo luce sui fatti. «Il mio non è un film politico» dichiara il regista Alfredo Lo Piero. Oggi, in Italia, è difficile pensare che un film del genere non abbia suo malgrado un significato e un impatto politico nel senso più elevato, quello dell’informazione, della demistificazione e della partecipazione. Ecco perché, al di là della drammatica bellezza dell’opera cinematografica di Lo Piero, bisogna andare a vederlo.

«La libertà non deve morire in mare» uscirà in circa novanta sale italiane giovedì 27 settembre con Distribuzione Indipendente. Qui il trailer