«La Belt and Road è in linea con l’attenzione riposta dal popolo cinese nei confronti delle civiltà lontane e il concetto di tianxia, basato sull’armonia tra tutti i popoli». Sono parole cariche di suggestioni remote quelle con cui, alla fine di agosto, il presidente della Repubblica popolare Xi Jinping ha celebrato il quinto anniversario del progetto Nuova via della seta (ufficialmente Belt and Road), la cintura economica tra Asia, Europa e Africa, mirata a restituire alla Cina l’antico protagonismo nella gestione dei flussi commerciali globali. Pensata principalmente per creare sinergie strategiche fra i tre continenti, portare sviluppo nelle regioni più occidentali del Paese e delocalizzare oltreconfine la sovracapacità che affligge l’industria cinese, all’estero la Belt and Road è stata presto tinteggiata di sfumature neocolonialiste. Colpa dell’esposizione debitoria accumulata dagli Stati coinvolti, a cui negli ultimi anni Pechino ha elargito finanziamenti agevolati per miliardi di dollari. Tanto che nel mese di luglio il segretario alla Difesa americano Jim Mattis ha parlato di una nuova minaccia per «l’ordine globale esistente». Il dito punta contro una “versione muscolare” del sistema tributario di epoca Ming (1368 – 1644) per mezzo del quale gli Stati periferici pagavano una sorta di omaggio formale di sottomissione al Celeste Impero con l’invio di doni e l’istituzione di un sistema commerciale regolato in cambio della pace e del riconoscimento della propria legittimità. Il paragone è particolarmente calzante se si considera che furono proprio i Ming ad avviare le prime spedizioni navali verso le coste africane, che oggi Pechino vuole rispolverare. Sebbene le insinuazioni statunitensi siano state bollate dalla stampa statale come “infantili” e “semplicistiche”, l’ingresso del termine “tianxia” in un discorso ufficiale conferma il tentativo teso ad accreditare l’agenda estera cinese tracciando un filo diretto con il passato. Al partito comunista non basta riannodare le proprie radici al glorioso interludio maoista. Vuole rievocare quel ritmo ciclico della storia che, di dinastia in dinastia, ha visto la Cina rimanere per secoli una delle civiltà più avanzate al mondo, salvo poi finire vittima dell’imperialismo occidentale nella seconda metà dell’800.
Innanzitutto, cosa si intende per “tianxia”? Letteralmente «tutto ciò che è sotto il Cielo», è il principio nebuloso per il quale un impero raggiunge portata potenzialmente universale grazie alla superiorità dei suoi valori culturali, estendibili oltre i confini fisici, linguistici, etnici e religiosi. Negli ultimi anni, la nozione di “tianxia” è diventata oggetto di dibattito all’interno dei circoli intellettuali d’oltre Muraglia. Nel 1981, la Chinese Association of Sociology of Ethnicity e la Chinese Academy of Social Sciences tennero – invano – una conferenza su scala nazionale con l’intento di raggiungere una definizione unanimemente condivisa del termine. Ma con l’ascesa politica ed economica del gigante asiatico sullo scacchiere internazionale, il concetto sinocentrico di “tianxia” ha varcato le frontiere nazionali diventando – seppur ufficiosamente – uno dei principi trainanti della politica estera cinese. Soprattutto con “l’incoronazione” di Xi Jinping a presidente e segretario del partito. «Può la filosofia dell’antica Cina salvare il mondo dal caos?» si chiede in un articolo comparso lo scorso febbraio sul Washington Post Zhao Tingyang, illustre accademico dell’Istituto di filosofia presso l’Accademia cinese delle Scienze sociali. Consolidata la propria statura intellettuale nel 2005 con Tianxia Tixi (The Tianxia System), Zhao ha riadattato la saggezza degli antichi alle nuove responsabilità della Cina come stakeholder mondiale. Lo ha fatto cancellando la natura verticale e gerarchica delle relazioni confuciane sottointese originariamente nel concetto di “tianxia”. Secondo l’esperto, in tempi di sovranismo, gli evidenti limiti del modello occidentale – basato sulla nozione restrittiva di “stato-nazione” – spianano la strada all’affermazione di una dottrina cinese, dichiaratamente inclusiva, che valorizza il concetto di “mondo” come massima unità politica. Facendo proprio il principio confuciano di “armonia tra le diversità”, il tianxia di Zhao presuppone l’attribuzione di pari dignità e legittimità a qualsiasi popolo su base egualitaria, a prescindere dalla sua estensione o statura economica. Un punto su cui è tornato nel 2014 lo stesso Xi durante una visita alle Fiji, la prima di un leader cinese nel remoto arcipelago del Sud Pacifico: «I Paesi, grandi o piccoli, forti o deboli, ricchi o poveri, sono tutti membri uguali della comunità internazionale». Da qui l’espressione “comunità del destino condiviso”, riproposta con insistenza martellante al termine di ogni vertice multilaterale. I primi cinque anni di amministrazione Xi Jinping sono stati marchiati da un evidente revival imperiale, e non soltanto per via di una recente riforma costituzionale che potenzialmente conferisce al capo di Stato un mandato sine die.
Come ricorda su Il Manifesto Maurizio Scarpari, ex docente di Lingua cinese classica presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, «grazie a lui il confucianesimo, bandito da Mao come retaggio feudale del passato, è tornato attuale e i suoi valori sono promossi e insegnati fin dalle scuole materne. Per questo volersi accreditare come leader illuminato, per il suo forte carisma, per l’atteggiamento risoluto e per l’immenso potere accumulato è stato paragonato a un imperatore con ambizioni egemoniche di stampo neocolonialista, dispotico ma al tempo stesso ammirato e stimato da una parte tutt’altro che insignificante della popolazione. Con lui si è chiusa un’era che ha visto la Cina prima umiliata dall’aggressione imperialista straniera e poi isolata dal resto del mondo». Certo, il ritorno alla grandeur implica anche critiche e rischi. Per la giornalista Didi Kirsten Tatlow, Pechino starebbe cercando di consolidare la propria base politica attraverso la riappropriazione di una concezione cosmologica e monistica che accomuna il Partito-Stato e l’assolutismo dinastico. Come scrive Tatlow per il Mercator Institute for China Studies, la nozione di tianxia presuppone un’estensione dell’influenza cinese oltre i confini nazionali in chiave coercitiva, come sottolinea l’esercizio della cosiddetta cybersovranità nel controllo della ricezione delle informazioni sgradite anche da parte dei cittadini cinesi all’estero. Ma forse è soprattutto il sistema del jimi (di amministrazione, ndr) a incarnare al meglio il potere esercitato al di là delle frontiere nazionali con lo scopo di proteggere gli interessi cinesi – sempre più globali – attraverso un sistema di punizioni e retribuzioni per gli stati “vassalli”. Basta pensare alle ritorsioni commerciali ultimamente messe in atto contro paesi e società straniere colpevoli di riconoscere implicitamente la statualità di Taiwan, l’isola democratica che Pechino vuole riannettere ai suoi territori. A distanza di sei secoli, il sistema del tianxia non implica più esclusivamente un’egemonia culturale. Soltanto tra il 2014 e il 2017, l’EximBank ha concesso finanziamenti per oltre 930 miliardi di yuan nell’ambito della Belt and Road. Come gli elevati costi portarono alla brusca sospensione delle ambizioni marittime della corte Ming, così oggi il rallentamento dell’economia e il malcontento popolare nei confronti della spesa estera di Pechino gettano tinte fosche sulla sostenibilità finanziaria della Nuova Via della Seta. E dei sogni imperiali di Xi Jinping.