Lettera aperta di una professionista della cultura che il 6 ottobre parteciperà alla manifestazione nazionale per chiedere lavoro con diritti equi e rispetto di una professionalità sudata. Perché la tutela della cultura da parte dello Stato ci riguarda tutti

Mi chiamo Barbara e faccio l’attrice. Faccio l’attrice, non lo sono. Certo ci sono delle predisposizioni, delle passioni, un talento ma non si nasce già dottori così come non si nasce già attori. Ecco questo è il punto; noi attori per diventare tali, abbiamo fatto una lunga formazione e come per tutte le professioni sviluppiamo le nostre abilità e ci aggiorniamo continuamente. Alla formazione accademica abbiamo affiancato la gavetta. E quanta gavetta! Io la prima esperienza l’ho vissuta sul set; avevo 19 anni e condividevo pausa e cestino (il pasto per troupe e attori, ndr) con Vittorio Gassman. Accanto a quel mostro che pochi giorni prima avevo visto in teatro con la faccia tutta nera mentre interpretava Otello, mi sentivo minuscola.

Credo che fu quello il giorno in cui pensai che questo lavoro non si poteva fare senza una vera e propria preparazione. Quindi finii l’università e me ne partii alla volta di Londra per andare a studiare teatro, quello di Shakespeare. Gli anni sono passati e le cose sono cambiate ma in peggio. Cosa che Vittorio Gassman si rivolterebbe nella tomba se sapesse che ora i suoi colleghi vengono trattati letteralmente come carne da macello. Il nostro non è più considerato un lavoro ma un hobby e quindi non meritiamo né diritti né welfare. La nostra vita professionale è totalmente precaria e subiamo conseguenze di una crisi culturale senza precedenti nel totale disinteresse delle istituzioni e dei soggetti politici.

Il discorso infatti è tutto culturale. L’intento è proprio quello di dare un segnale che tutto il comparto, dallo spettacolo alla lirica, ai beni culturali (non a caso cito questi per primi, perché sono i promotori della Manifestazione del 6 ottobre) torni a poter offrire una visione culturale, che dia speranza, che racconti di possibilità, di talenti che diventano opere riconosciute in tutto il mondo, che stimoli gli ingegni e che renda fieri essere dei professionisti nel proprio campo. È un sogno? No, affatto. È ciò che accade in molti Paesi stranieri e che accadeva in Italia fino a 25 anni fa. E solo una visione culturale nuova o rinnovata è lo strumento che può portare a sentirsi finalmente fieri di essere cittadini di un Paese.

Noi attori siamo stremati, non riconosciuti, impoveriti ma soprattutto messi gli uni contro gli altri. Alla stragrande maggioranza degli attori è negato l’accesso al lavoro: infatti, per fare cassa, a causa dei tagli indiscriminati al Fus, le produzioni si affidano ai quei pochi nomi di richiamo che hanno garantiti lavoro e cifre fuori mercato escludendo tutti gli altri professionisti o riducendoli a paghe vergognose. Insieme poi si condividerà non solo lo stesso palcoscenico ma anche ahimé, la divisione della benzina per le trasferte in macchina. Alla pari. Si è perso il senso della comunità, del gruppo. Del rispetto di un tutto.

I produttori accettano o facilitano questo modus operandi, così invece di sostenere la professionalità e la qualità si risponde ad un mercato cieco che non fa differenza tra uno spettacolo un altro, basta ci sia “il nome”. È aberrante. No peggio, è triste. La ricerca Vita d’artisti, ha dimostrato che il numero medio annuo di giornate retribuite per quanto riguarda gli artisti impegnati nello spettacolo è 34. Poco più della metà dei lavoratori percepisce fino a 5 mila euro l’anno. In compenso ci sono barman e camerieri che recitano benissimo. Si deve pur campare.

Il 6 ottobre si scende in piazza. Tutti. Artisti, archeologi, musicisti, autori, lavoratori dei beni culturali e ambientali, della lirica, bibliotecari. Tutti. Stanchi ma non vinti. La cultura fa anche questo: ti brucia continuamente dentro, non ti lascia addormentare, ti rende incazzato o depresso magari ma poi si ricomincia. Il 6 si parte da Piramide in corteo, con striscioni, slogan e rivendicazioni e a piazza Mastai, punto di arrivo, saremo in tanti, per farci vedere, per far veder alla gente, che con la cultura non ci lavora ma ci convive, che non si può lasciar senza forze economiche un comparto così essenziale al bene del Paese, lasciarlo senza programmi lungimiranti. Lasciarlo languire, fino a morire.

Lo sa la gente che tutto il settore culturale nazionale produce il 17% del Pil? Non lo sa. E noi saremo lì per dirglielo, per dire che chiediamo lavoro con diritti equi e rispetto di una professionalità sudata. Che si accorga il Paese che ha bisogno di noi, perché un Paese che non produce cultura è un Paese morto.