Negli ultimi anni il lavoro non retribuito obbligatorio è stato istituzionalizzato. Rivolto ai più vulnerabili, giovani, immigrati, disoccupati, è una negazione dei diritti. Sancita dai provvedimenti degli ultimi governi e codificata dalla proposta di reddito minimo targata M5s

Esistono cambiamenti che apparentemente sembrano coglierci di sorpresa, stravolgendo le nostre quotidianità, ma che arrivano in un batter d’occhio a farne parte con naturalezza. Il lavoro gratuito è uno di questi cambiamenti, lentamente insediatosi tra i tanti volti del mondo del lavoro. A guardarlo oggi, il lavoro gratuito appare davvero come una novità perché caratterizza completamente alcune fattispecie di rapporti di lavoro. Eppure, mettendo insieme le varie sfumature con cui si presenta più o meno limpidamente ai nostri occhi, è possibile ritrovare la radice comune e mai invecchiata del lavoro gratuito, come furto salariale, insito in ogni rapporto di lavoro. Perché cos’è il lavoro gratuito, se non quella parte di valore creata dai lavoratori che rimane all’impresa? Quel valore a cui senza alcun imbarazzo è possibile rivolgersi chiamandolo per nome, “plusvalore”.

Se è vero, com’è vero, che ogni rapporto di lavoro nel sistema capitalistico si basa (anche) su quel furto salariale, versioni più rapaci si verificano in contesti ad alta vulnerabilità e ricattabilità dei lavoratori che si ritrovano ad allungare la giornata lavorativa senza vedersi corrispondere nulla in cambio degli straordinari, della reperibilità. Ma è anche vero che si può rimanere stupiti di fronte al dilagare di fenomeni di lavoro gratuito tout court, cioè senza nessun tipo di remunerazione. Ma anche questo fenomeno non si configura storicamente come una novità, è sempre esistito e ha nel tempo assunto nuove forme. Quel che appare come una novità degli ultimi anni è l’istituzionalizzazione del lavoro gratuito obbligatorio per segmenti crescenti della forza lavoro, spesso quelli già strutturalmente più vulnerabili: giovani, immigrati, disoccupati.

La progressiva istituzionalizzazione di queste forme di lavoro si ritrova nei provvedimenti adottati dai governi che si sono succeduti e in quelli di alcune amministrazioni che li hanno utilizzati. Hanno natura tra loro diversa, leggi, protocolli, circolari, ma sono legati da un’unica ideologia e interpretazione dei fenomeni economici e sociali: la disoccupazione è una condizione volontaria, una scelta del soggetto che…

L’articolo di Marta Fana prosegue su Left in edicola dal 5 ottobre 2018


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