Ieri sera avrei dovuto essere a Roma, al Teatro India, a ricordare Giulio Regeni insieme a tanti colleghi, amici e testimoni importanti di una battaglia che per fortuna non si assopisce come avrebbe voluto qualcuno. Non ci sono potuto passare, per stagionali problemi di salute (la serata è stata bella e importante) e non ho potuto leggere il testo che avevo preparato per l’occasione. Stamattina mi sono svegliato e ho pensato di metterlo qui, in questo buongiorno che è seguito con tanta attenzione (grazie!)o e poi ho pensato che non ci sia niente di peggio che riciclare un pezzo scaduto.
Mi spiego. Le occasioni per ricordare o per chiedere la verità non esistono. Meglio: ci sono momenti organizzati in cui ci si unisce in coro per rafforzare la richiesta di giustizia ma ricordare (e soprattutto, come nel caso di Giulio Regeni, quando il ricordare fa rima con la richiesta di una verità che quelli debbano sentirsi in dovere di spiegarci) è un lavoro minimo, quotidiano, una di quelle cose come la goccia che scava la pietra, un gesto abituale di cui non si può fare a meno, uno di quei tic sani che ci tiene in piedi in un tempo di sdraiati, un dolore (perché è un dolore, benché ci si impegni nell’indossarlo con ottimismo) usurante e continuo.
Ciò che mi spaventa della storia di Giulio (e di tutte le storie come questa) è il momento in cui gli appelli, gli articoli, le domande e gli editoriali diventano una cosa vecchia, una vecchia storia. Quel momento in cui la rabbia (quella sana, che esige giustizia) si smorza, come se le si fosse strappato un tendine e diventa malinconia. Oh, sì, ma quella è una storia vecchia: la sconfitta ha più o meno il suono di una frase pronunciata più o meno così.
E come si può fare invecchiare una storia perché possa essere seppellita dall’incuria e dalla ricerca di impunità? Togliendole umanità, innanzitutto: per questo la sofferenza dei genitori di Giulio andrebbe stampata e tenuta nel portafoglio insieme al viso di sbrindellato di Giulio. Questa non è solo politica internazionale, no: sono affetti sopraffatti dalla violenza. È più facile provare empatia, uscendo dalla burocrazia narrativa, no? Poi una storia si può rendere inoffensiva parlando d’altro: i rapporti che non possiamo permetterci di guastare con l’Egitto, il se l’è cercata che sta bene su tutto, il lasciamo fare agli inquirenti anche se in Egitto di inquirenti con la schiena dritta su questa vicenda sembra non esserci nemmeno l’ombra. E infine una storia si smussa lasciando passare il tempo: ogni settimana Giulio è un po’ più morto e i suoi assassini un po’ più vivi. Il tempo è il miglior viatico verso l’impunità.
Allora si potrebbe, nei nostri piccoli vizi giornalieri, aggiungere anche quello di Giulio Regeni, e insieme a lui delle storie che non possiamo permetterci di dimenticare. Perché, pensateci, commemorare una storia senza che nessuno ci abbia ancora raccontato come va a finire è qualcosa di goffo, a guardarlo da fuori. E perché la verità è un bene prezioso, e proprio per questo qualcuno tenta sempre di risparmiarla.
Buon giovedì.