Il crollo del ponte Morandi a Genova non è una questione locale ma una faccenda che investe la sesta città italiana. La tragedia ha messo in risalto oltre al processo di desertificazione sociale della Valpolcevera, quello delle periferie in generale, carenti di servizi, dalla sanità ai trasporti

«Mancano soldi nel decreto Genova ma, soprattutto, manca un ragionamento sulla città» dice a Left Luca Borzani, storico, ex presidente di Palazzo Ducale e, prima ancora, assessore ai tempi di Pericu. «Credo che verrà ritoccato – aggiunge – perché, probabilmente, i pochi soldi dipendono dalla partita che si sta giocando con l’Ue sulla legge di bilancio. E Genova potrebbe essere usata per slargare i cordoni della borsa. A quasi due mesi dal crollo del ponte Morandi, però, non sembra ancora chiaro a nessuno che non è una questione locale ma una faccenda che investe la sesta città italiana».
«Sul decreto si gioca il futuro di una città divisa non solo da un ponte spezzato» spiega Davide Ghiglione, consigliere municipale in Valpolcevera (Chiamami Genova). «Da tempo esistono due città: una esclusiva, luccicante e un’altra fatta di periferie abbandonate, quartieri dormitorio». Fino al giorno della strage – 43 i morti e 258 le famiglie sfollate – i 70mila abitanti della valle comunque dovevano battersi contro Tav, Gronda, Dighe di Begato (due torri di edilizia popolare fatiscenti), sversamenti di idrocarburi, sfruttamento selvaggio del territorio. «Alcuni sembrano accorgersene solamente adesso – riprende Ghiglione – ma la tragedia ha messo in risalto il processo di desertificazione sociale della Valpolcevera, e delle periferie in generale, carenti di qualsiasi tipo di servizi, da quelli sanitari ai trasporti». “Lavoro, strade, sanità”, infatti, sono state le parole d’ordine del corteo di alcune centinaia di persone, scese dalla Valpolcevera fino al centro, l’8 ottobre, dopo aver…

 

Il reportage di Checchino Antonini prosegue su Left in edicola dal 12 ottobre 2018


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