Il 4 novembre non c’è nulla da celebrare. Nazionalismo, riarmo, confini incerti e razzismo: la Prima guerra mondiale continua a produrre i suoi effetti. Cento anni dopo sarebbe ora di fermarla. Si deve, si può. Sarebbe la vera vittoria

Pretendeva di essere «la guerra per fare la pace perpetua e invece è stata solo l’inizio», avverte Antonio Moscato, storico del movimento operaio, autore fra l’altro di La madre di tutte le guerre (Lacori). Stiamo parlando della Grande guerra a cent’anni dall’epilogo mentre si ricombina il miscuglio di nazionalismo, riarmo, militarismo, xenofobia che la scatenarono.

Partiamo da Trieste. «Trieste è italiana da 100 anni dopo che per 536 è stata legata all’Austria, la città fu italianizzata con una bonifica etnica» dice a Left, Wu Ming 1, al secolo Roberto Bui, autore, fra l’altro, di Point Lenana (Einaudi) o Cent’anni a Nordest. Viaggio tra i fantasmi della “guera granda” (Rizzoli). «Non era vero – aggiunge – che quelle popolazioni non vedessero l’ora di essere governate dai Savoia, compresi gli italofoni». «Già nella prima fase – conferma Moscato – la Prima guerra mondiale comporta una serie di deportazioni, quando gli italiani entrano nel 1915 nelle “terre irredente” perderanno tempo (e fu anche un errore strategico) nel rastrellamento delle popolazioni slave accusate di atteggiamenti “austriacanti”».

I toponimi e i cognomi vennero subito italianizzati, fu creata una bolla di burocrazia italiana civile e militare. «Le prime leggi “razziali” – ricorda Wu Ming 1 – furono emanate nella Venezia Giulia e nelle colonie. Solo nel 1938 furono applicate in Italia. E non è un caso se Mussolini pronunciò

L’articolo di Checchino Antoni prosegue su Left in edicola dal 2 novembre 2018


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