Il 5 novembre si è aperto a Caltanissetta il processo ai presunti responsabili del depistaggio che l’ex procuratore nisseno Sergio Lari definì «il più clamoroso della storia italiana». Quello messo in atto per coprire i mandanti del massacro di Paolo Borsellino e della sua scorta

Chi deviò le indagini su via D’Amelio lo fece per dare una rapida risposta investigativa al caos istituzionale del dopo-stragi o per “coprire” i mandanti occulti dell’attentato? A 26 anni dall’esplosione che massacrò a Palermo Paolo Borsellino e la sua scorta, e mentre la Procura nazionale di Federico Cafiero De Raho ha appena ricostituito i gruppi investigativi per tornare a indagare sulle bombe  ’92-93, l’interrogativo piomba con tutto il suo carico di mistero sul processo che dal prossimo 5 novembre si apre a Caltanissetta per giudicare i presunti responsabili del depistaggio che l’ex procuratore nisseno Sergio Lari definì «il più clamoroso della storia italiana».
Sarà un dibattimento unico nel suo genere, con i consueti ruoli delle parti radicalmente capovolti: alla sbarra compariranno tre uomini dello Stato, mentre alcuni mafiosi rappresenteranno la parte civile che ha già anticipato la richiesta di risarcimenti per decine di milioni di euro. Gli imputati sono il funzionario Mario Bo e gli ispettori Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, tre poliziotti che nel ’92 facevano parte del gruppo “Falcone-Borsellino”, creato ad hoc per indagare sulle stragi e affidato all’allora capo della Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera (poi scomparso nel 2002). Tutti sono accusati di concorso in calunnia con l’aggravante di aver agevolato Cosa nostra. Ma nei loro confronti, il gup Graziella Luparello ha contestato un’ulteriore aggravante: quella di aver agito per occultare la responsabilità di soggetti “esterni a Cosa nostra” nell’ideazione e organizzazione della strage.
Ecco che dopo un quarto di secolo di indagini, dopo un pentito farlocco (Vincenzo Scarantino) che a suon di minacce fu “indotto” a mentire, e dopo la comparsa di un nuovo collaboratore (Gaspare Spatuzza) che nel 2008 ha riscritto da capo la dinamica dell’attentato, finalmente in un’aula giudiziaria si potrà sezionare l’anatomia del grande inganno che ha gabbato fior di magistrati finendo per essere ratificato da sei sentenze (Borsellino Uno e bis nei tre gradi di giudizio), con tanto di bollo della Cassazione.
Nel processo si sono già costituiti parte civile i tre figli di Borsellino, il fratello Salvatore e i figli della sorella Adele, deceduta qualche tempo fa. Ma sul banco delle parti civili, stavolta, compariranno anche sei palermitani che a partire dal ’94 furono accusati ingiustamente da Scarantino, e dopo aver subito una condanna sono stati recentemente assolti dalla corte d’Appello di Catania chiamata a “rimediare” al depistaggio: si tratta di Gaetano Scotto, Cosimo Vernengo, Giuseppe La Mattina, Natale Gambino, Giuseppe Urso e Gaetano Murana.
Ma quali sono le deviazioni ai compiti istituzionali contestate ai tre poliziotti? Per i pm nisseni, Bo (che nel ’94 sostituì La Barbera a capo della squadra investigativa) avrebbe fornito suggerimenti a Scarantino durante i colloqui investigativi prima e dopo che il balordo si dichiarasse falsamente “pentito”; mentre Mattei e Ribaudo lo avrebbero “indottrinato” quando, nell’estate ’95, l’impostore si trovava detenuto ai domiciliari in un appartamento di San Bartolomeo al Mare (Savona), facendogli ripetere a memoria i verbali perché potesse confermare le sue accuse fasulle nelle aule giudiziarie.
Ma è tutto qui il depistaggio di via D’Amelio? Nel provvedimento che chiede il processo per i tre poliziotti, i pm non fanno cenno alle ragioni che avrebbero spinto gli uomini in divisa dello Stato a partecipare alla “fabbrica” del falso pentito, trasformando il picciotto semianalfabeta della Guadagna nel “novello Buscetta”. Ma perché lo fecero? Per smania di carriera o per coprire innominabili interessi superiori? Mistero.
Nella sentenza del Borsellino quater già un anno fa la corte d’assise nissena ipotizzò che dietro il depistaggio potesse esservi un interesse specifico degli apparati alla “copertura” dei committenti occulti della strage e oggi, in perfetta sintonia, il gip nisseno contesta ai tre poliziotti la volontà di «occultare la responsabilità di altri soggetti, anche esterni a Cosa nostra, nella ideazione, istigazione al compimento e alla materiale esecuzione della strage di via D’Amelio».
Uno spiraglio che sembra puntare dritto al cuore nero dello Stato, promettendo di superare la pur monumentale indagine della procura nissena che finora non è riuscita ad andare oltre l’incriminazione di tre soggetti che, per i gradi e i ruoli ricoperti, non potevano che essere esecutori e terminali di una catena di comando che sale dritta fino al Viminale. Ecco perchè Il processo che si apre è forse l’ultima occasione per scalfire il muro delle reticenze istituzionali, definendo finalmente non solo l’identità dei responsabili, ma anche il vero movente di quell’indagine deviata che, fin dai momenti immediatamente successivi alla strage, appare infarcita di anomalie e inspiegabili veline del Sisde. Quello stesso Sisde che negli anni ’86-’87 teneva a libro paga l’asso dell’antimafia La Barbera con il nome in codice di “Rutilius”.

 

INTERVISTA n.1

L’avvocato Fabio Repici: La Barbera non può aver fatto tutto da solo

Intervista al difensore di parte civile di Salvatore Borsellino

 

Finalmente al via il processo sul più “colossale depistaggio di Stato”. I fari sono puntati solo su tre esecutori?
Sì, ma è già un successo. Durante il Borsellino quater la procura nissena aveva archiviato la posizione di Bo.
Se la Corte d’assise di Caltanissetta non avesse consacrato in sentenza che Scarantino fu “indotto” a mentire, e se non ci fosse stato l’impegno, tra gli altri, di Salvatore Borsellino e mio, forse questo processo non sarebbe nemmeno iniziato. L’auspicio è che serva a svelare ulteriori pezzi di verità.
Che idea s’è fatta del superpoliziotto La Barbera?
È impensabile che abbia agito in autonomia, da solo non sarebbe riuscito a orchestrare quel depistaggio. Anche per questo è da escludere che abbia operato per carrierismo. La Barbera è stato, insieme, Sisde e Polizia di Stato. E, stando a plurime fonti, anche contiguo alla famiglia Madonia che comandava il clan mafioso di Resuttana, delegato da Riina a gestire i rapporti con Polizia e servizi. Il depistaggio operato da La Barbera rientra nel quadro di queste diverse fedeltà e ha risposto a linee di comando che risalgono fino ad alti vertici.
Lei ha mai avuto il dubbio che il pentimento di Gaspare Spatuzza sia arrivato al momento giusto, introducendo contenuti che potrebbero aver bloccato le ricerche ad altri livelli?
So bene che alcuni hanno perplessità sulla collaborazione di Spatuzza. Però, è certo che il disvelamento di uno dei più gravi depistaggi della storia repubblicana è nato dal suo pentimento.
La parziale sovrapponibilità fra le sue dichiarazioni e quelle messe in bocca a Scarantino può trovare spiegazione nel fatto che i “pupari” conoscessero dall’interno la verità su via D’Amelio. Nel racconto di Spatuzza, inoltre, compare un uomo esterno a Cosa Nostra, che fece da supervisore alla preparazione dell’autobomba la sera prima della strage di via D’Amelio.
Forse questo aiuta a trovare varie risposte sul “depistaggio Scarantino”.

 

INTERVISTA n.2

L’avvocato Rosalba Di Gregorio: Un passo avanti dopo ventisei anni di falsità

Intervista al difensore di parte civile di Murana, Vernengo e La Mattina

 

Secondo lei il processo ai tre poliziotti è un approdo minimalista alla ricostruzione del depistaggio o finalmente uno spiraglio verso una verità che punta al cuore delle istituzioni?
Dopo 26 anni di false ricostruzioni e dinanzi alla sentenza del Borsellino quater che parla chiaramente di depistaggio, non è certo esaustivo un processo a tre poliziotti, pur se esecutori consapevoli di ordini illegittimi. È però un passo avanti verso l’accertamento della verità processuale che, oltre ad accertare la responsabilità di chi eseguì gli ordini, dovrebbe individuare chi li impartì.
Nella sua arringa al Borsellino quater lei ha richiamato il ruolo del Viminale e del prefetto Luigi Rossi (il vice dell’ex capo della Polizia Vincenzo Parisi) che, secondo il poliziotto Gioacchino Genchi, accelerò le indagini sulla manovalanza mafiosa. In che modo i piani alti delle istituzioni potrebbero essere coinvolti nel depistaggio Scarantino?
Il ruolo del Viminale compare anche con la creazione del gruppo “Falcone-Borsellino” e la nomina al suo vertice di La Barbera. I ministri succedutisi nel tempo, infatti, da Mancino a Napolitano, hanno voluto e mantenuto la squadra investigativa, di cui facevano parte anche i tre imputati, “prorogandone” la vita per dieci volte.
Lei assiste alcune delle persone falsamente accusate da Scarantino. In questa storia sono più vittime loro o il balordo della Guadagna?
Ciascuno ha la propria storia. Mi pare improprio fissare una gerarchia di sofferenza.
Che giustizia è quella italiana che ha consacrato con sei sentenze una ricostruzione-fantasy, nella migliore delle ipotesi suggerita dalla polizia, nella peggiore frutto di manovre occulte per coprire i reali responsabili delle stragi?
Un dramma per la Giustizia. Ma ora bisogna capire se la procura competente, quella di Catania, vorrà accertare come e perché la magistratura dell’epoca si è mossa sulla ricostruzione-fantasy.

Gli articoli di Stefania Limiti e Sandra Rizza sono stati pubblicati su Left del 2 novembre 2018


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