Il 7 gennaio 1979 le forze vietnamite posero fine al brutale regime di Pol Pot e dei Khmer rossi in Cambogia. In soli quattro anni la dittatura causò la morte di circa 1,5 milioni di persone. A distanza di quarant’anni, molto ancora resta da scoprire e raccontare. La ricerca della verità è al centro della ricerca cinematografica del regista Rithy Panh, di cui pubblichiamo l’intervista.
È da trent’anni, ormai, che il regista, artista e poeta Rithy Panh, è diventato il custode e l’aedo della memoria della Cambogia e degli orrori subiti dal suo popolo per mano dei Khmer Rossi, quando, occupata la capitale Phnom Penh il 17 aprile del 1975, il partito comunista diede ufficialmente inizio al temporaneo Stato della Kampuchea Democratica. Nei quattro anni che seguirono, prima della sua destituzione nel 1979, il regime mise in atto una pulizia etnica sistematica che, secondo le stime, costò la vita a un numero imprecisato di persone, compreso tra il milione e mezzo e i tre milioni. «Penso sia normale avere difficoltà a relazionarsi con tragedie di questa entità subito dopo la loro conclusione» dice Panh, autore di Graves without a Name presentato all’ultima Mostra del Cinema di Venezia. «Immediatamente dopo la Shoah, per esempio, non ci sono stati molti racconti al riguardo. Credo che lo stesso Primo Levi, inizialmente, avesse venduto pochissime copie rispetto al pubblico che ha poi avuto con Se questo è un uomo. Quindi è normale che passi del tempo prima di riuscire a rimettersi in sesto e, un po’ alla volta, imparare di nuovo a parlare, ad amare, a vivere. Perfino a gustare il cibo che si mangia. È stato colpito l’animo profondo dell’umanità, lasciando tantissime ferite. Ma credo valga la pena aspettare tutto il tempo necessario prima di riuscire a raccontare storie come faccio io con i miei film. Comunque vadano le cose sappiamo che la storia si ripete».
Le “tombe senza nome” a cui Panh fa riferimento nel titolo del film sono quelle incalcolabili delle vittime cambogiane a cui non si è potuto ancora dare degna sepoltura, e i cui resti anonimi affiorano, insieme a brandelli di tessuto, tra le zolle di terra dei campi coltivati, nell’indifferenza generale delle nuove generazioni, ma anche di quei superstiti che oggi preferirebbero dimenticare pur di non dover riaprire ferite profondissime mai del tutto rimarginate. «È complicato capire gli effetti di un crimine di tale portata » prosegue Panh. «Qualcuno ha perfino parlato di auto-genocidio, che non è certo il termine più felice per descriverlo. Poi lo si è definito genocidio e crimine contro l’umanità. Al di là di questo, però, c’è nelle vittime il bisogno di definirsi, di capire chi sono, da dove vengono, di trovare la loro identità, e con essa la loro dignità. Noi che realizziamo film, che dipingiamo, che scriviamo libri o componiamo musica diamo il nostro contributo perché aggiungiamo il nostro pezzetto di puzzle contro la cancellazione totale della memoria. È questo che ci permette di recuperare l’identità e di aiutare queste persone a capire chi sono e da dove vengono, sia per quanto riguarda le nostre generazioni, ma anche e soprattutto quelle future». Se oggi a quello sterminio ci si riferisce come a un vero e proprio genocidio equiparabile alla Shoah, è stato anche grazie a Rithy Panh e alla sua opera di divulgazione, di ricostruzione, comprensione ed esorcizzazione di un trauma tanto privato quanto collettivo. Khieu Samphan, l’allora leader dei Khmer Rossi condannato all’ergastolo per crimini contro l’umanità (e adesso per genocidio v.sotto ndr), ha ammesso le proprie colpe dopo aver visto S-21. La macchina di morte dei Khmer Rossi, il documentario con cui nel 2003 Panh ha persuaso tre superstiti delle vittime e i loro carnefici a tornare all’interno dell’edificio – oggi sede del Museo del genocidio – dove il regime torturò, interrogò e uccise 17mila prigionieri. Un film esemplare, la cui tecnica è stata poi ripresa dal regista di The Act of Killing Josua Oppenheimer per raccontare il genocidio finalizzato all’annientamento del partito comunista indonesiano da parte del regime di Suharto negli anni 60.
Va detto che quello di Rithy Panh è un cinema molto personale e visionario da intendersi come un lungo viaggio di scoperta a tappe in cui si alternano, talvolta mescolandosi, il linguaggio del documentario e quello della fiction. «Credo innanzitutto che sia molto complicato fare un unico film su questo periodo buio del mio Paese» precisa Panh, un sopravvissuto lui stesso del genocidio, che ha visto morire i propri familiari prima di riuscire a fuggire in Thailandia e poi in Francia, dove oggi vive. «È il motivo per cui fin dall’inizio ho deciso di non limitarmi a un solo film, ma di trattare questa storia in diversi segmenti che si concentrassero ognuno su temi specifici». C’è un aspetto, però, che distingue Graves without a Name dai suoi precedenti lavori, incluso il quasi speculare L’immagine mancante, con cui nel 2013 Panh venne insignito a Cannes con il premio Un certain regard e successivamente nominato agli Oscar, e di cui riprende l’uso della stop motion, del diorama e del testo poetico fuori campo per dare vita a ricordi di esperienze vissute non immortalate dalle immagini. Si tratta di un’inedita propensione all’ascolto che per la prima volta lo rende indulgente anche nei riguardi dei carnefici. «In realtà, questa propensione c’è sempre stata da parte mia, ma, poiché non sono un funzionario religioso che ascolta la confessione di un assassino, non è stato facile. Sono un uomo come voi, che deve controllare le proprie emozioni e i propri sentimenti, tanto più che ho vissuto in prima persona molte di queste cose di cui parlo. Quindi, anche da un punto di vista intellettuale e artistico, è importante mantenere la giusta distanza. Io ho sempre ascoltato, l’ho fatto per quasi due anni con l’allora comandante del campo principale dei Khmer Rossi. Forse, però, non ero ancora pronto a raccontarlo perché l’ascolto implica anche tanto dolore e può perfino distruggere. Bisogna fare attenzione ed è per questo che il mio lavoro procede per gradi, cercando di fare la cosa giusta quando me la sento».
In Graves without a Name Rithy Panh compie un altro passo che non aveva mai fatto prima. Diventa lui stesso protagonista del film, lasciandosi riprendere in prima persona e interagendo con gli altri personaggi, in particolare con una medium che dialoga con i fantasmi dei morti e che accetta di fargli da tramite con suo padre. «Non sono io che sono voluto apparire nel film, ma è il film che mi ha attirato a sé» puntualizza il regista. «Mi rendo conto che per voi possa risultare difficile concepire l’idea di poter instaurare un dialogo con i fantasmi che ci circondano, però è proprio quello che volevo fare. Così mi sono dovuto preparare a quest’incontro speciale, seguendo tutto un cerimoniale che comporta la rasatura della testa. È stato molto commovente assistere al momento in cui questa vecchia signora veniva posseduta dal fantasma di mio padre e mi diceva di avvicinarmi. Io non sapevo cosa fare. Ho esitato per un po’ finché, su sua insistenza, mi sono fatto coraggio e sono entrato nel film. Al di là di tutto, trovo naturale il fatto di poterne parlare. Riguarda tutti noi e, anche se si tratta di una visione un po’ poetica, è importante continuare a dialogare con le persone che non ci sono più».
Il suo ultimo film, nel preservare la memoria del passato tocca temi universali “sensibili” come l’accoglienza, l’uguaglianza e l’accettazione della diversità, e allora chiediamo a Rithy Panh il suo personale punto di vista in materia di migrazione e delle derive politiche che stanno caratterizzando l’Italia come tutta l’Europa. «Che volete che vi dica, gli italiani hanno votato un governo fondamentalmente di destra, un po’ come l’Austria, gli Stati Uniti, l’Ungheria. Non sono un politico però è un progetto di società quello che si sta esprimendo attraverso il voto. Io posso solo dire che senza la base della democrazia, ossia la cura dei più deboli, non ci può essere pace. E non c’è nessun muro, nessuna frontiera, nessuna barca che tenga che cambierà le cose.
Quindi, secondo me, non dovete ascoltare quello che vi raccontano. Nulla è facile, ma dovremmo cercare di capire come vivere assieme, come condividere lo spazio e le cose che abbiamo a disposizione, e in questo modo come arrivare a quella che secondo me è la civiltà. Io, personalmente sono scoraggiato da questa situazione. Considero questo che stiamo vivendo un vero e proprio periodo post-nazista, forse più soft, di cui non ci rendiamo conto, però quello che, ad esempio, è successo in Germania poco tempo fa, quando centinaia di persone hanno cacciato gli immigrati per la strada, dovrebbe svegliarci, se per caso stessimo ancora dormendo».
La sentenza
Il 16 novembre il tribunale di Phnom Penh ha condannato all’ergastolo per genocidio gli ultimi capi dei Khmer Rossi. Si tratta di Nuon Chea, 92 anni, braccio destro del dittatore comunista Pol Pot, e Khieu Samphan, 87 anni, capo di Stato cambogiano all’epoca dello sterminio delle minoranze e degli avversari politici. I due erano già in carcere con una condanna all’ergastolo per crimini contro l’umanità compiuti tra il 1977 e il 1979. I Khmer Rossi guidati da Pol Pot, presero Phnom Penh il 17 aprile 1975. Iniziarono subito le deportazioni dei civili verso le campagne inseguendo un comunismo agrario che si rivelò un regime di terrore e che provocò la morte di un numero per ora indefinito di persone, tra un milione e mezzo e tre milioni.