Mohsen Vaziri è l’esempio eccellente dei pionieri della storia dell’arte iraniana dell’ultimo secolo. Un significativo testimone che appartiene alla prima generazione dell’avanguardia artistica iraniana, generazione ossessivamente alla ricerca di un nuovo linguaggio: in particolare alla ricerca di un loro modernismo che appartenesse alla loro storia, cultura e percezione del mondo. Un modernismo che non voleva essere né una semplice copia dell’arte occidentale né cadere nel cliché dell’orientalismo. Vaziri ha dedicato gli studi e il lavoro di una vita a questo nuovo linguaggio. E’ stato artista, traduttore e autore di libri sulle tecniche artistiche. Un insegnante appassionato che ha lasciato traccia sui coetani e un’eredità riconoscibile nella generazione successiva.
Mohsen Vaziri Moghaddam nasce a Teheran nel 1924. Nei primi anni Quaranta si iscrive alla Facoltà di Belle Arti della capitale. Già nei primi anni di studio, nonostante il metodo tradizionale dell’accademia, si interessa alle tendenze della prima avanguardia storica, in particolare all’impressionismo e postimpressionismo. La sua prima personale è nel 1952, alla Iran-America Society di Teheran. Tre anni dopo sarà a Roma, dove studia all’Accademia delle Belle Arti e avrà la sua prima personale italiana nel 1956 alla Galleria d’arte Portonovo di Roma.
Ma il momento cruciale della sua carriera e la sua “concezione di pittura astratta”, avviene suprovocazione del suo professore Toti Scialoja che gli chiese se volesse essere un pittore che sa dipingere bene o un artista che scopre e costruisce il suo segno. E così, in un giorno d’estate del 1959 mentre sulla spiaggia di Castel Gandolfo giocando con gli amici si copre di sabbia nera, nota le linee lasciate dalle sue dita, sia sul corpo che per terra; scopre la traccia che diventerà il suo segno. Il pennello diventò il corpo dell’artista e il segno sulla tela la memoria del corpo in movimento, ora e qui immortalizzato nel colore e nella materia.
Quest’azione, pari alle tendenze d’avanguardia internazionale del secondo dopo guerra, lo inscrive di diritto tra i precursori delle tendenze artistiche che stavano per arrivare. Basti ricordare gli anni Cinquanta e Sessanta, l’espressionismo astratto americano, l’informale europeo o le esperienze del gruppo Giapponese Gutai. Per Vaziri la sabbia a sua volta ricorda i giochi della sua infanzia con la terra dei deserti o le spiagge del mar Caspio, oltre a commemora l’umano preistorico che nella caverna ha lasciato il suo segno, la sua impronta.
Non a caso questi lavori hanno attirato l’attenzione dei più eminenti esponenti della critica d’arte italiana del periodo, da Giulio Carlo Argan ad Alberto Moravia, il quale nel suo testo presume, per chi viene da un paese orientale con una grande tradizione, che l’incontro con la cultura europea provochi “in primo momento un abbandono completo della tradizione autoctona a favore di una interiorità fuori del tempo e dello spazio”. E quando questa interiorità viene esplorata e oggettivata, essa si attenua nella “consapevole rivisitazione della tradizione… In altri termini la realtà moderna viene vissuta e sofferta con sensibilità nazionale”.
Nel 1964, all’apice della sua carriera artistica, torna in patria, e fino al 1975 insegna presso la Facoltà di arti decorative (l’attuale Università dell’arte) e presso la Facoltà di Belle Arti di Teheran. Negli stessi anni comincia a scrivere testi di metodologia artistica guide del disegno e pittura.
Alla fine degli anni Sessanta, produce le opere in bassorilievo, con fogli d’alluminio e ferro; a volte in colori primari. Sono le forme al bivio tra pittura e scultura. Anche qui, una nuova interpretazione dell’arte ottica e cinetica italiana che indagava l’illusione bidimensionale. Il materiale scelto dall’artista rispecchia la forma eppure inganna lo spettatore e l’occhio verso un movimento visivo, spaziale, ma anche corporale e psicologico.
L’ulteriore evoluzione di questi lavori avviene negli anni Settanta con una serie di sculture mobili costruite da pezzi di legno uniti con dadi e bulloni che lo spettatore poteva muovere e spostare. Come dice l’artista: “Per far sì, che si aprissero e chiudessero proprio come le giunture del corpo umano”. Nel corso degli anni Settanta, a seguire le sculture (forme in movimento, 1970) che venivano mosse dal pubblico che partecipava all’opera, nascono una serie di dipinti che riprendono e sviluppano le forme spesso aguzze delle sculture stesse, insieme a forme fortemente curvilinee nei lavori tridimensionali. Su questi lavori scriveranno Alberto Moravia, Pierre Restany e Toni Maraini.
Nel 1985, Vaziri insieme alla famiglia si trasferisce un’altra volta, e definitivamente, in Italia per continuare la sua ricerca creativa. Ha dedicato agli studi e al lavoro una vita senza mai stancarsi e continuerà a dipingere anche quando nel 2003, colpito da una malattia agli occhi perde in parte la vista. Lui che, prima di iniziare a dipingere, aveva sempre sognato di diventare un musicista, sapeva come far suonare la materia sulla superficie dello spazio. Dipinse fino alla fine lo sguardo, la visione! Citando Max Ernst “inside of sight”, all’interno della vista.
Nel 2004 in occasione della sua retrospettiva al Museo d’Arte Contemporanea di Teheran gli viene dato il riconoscimento come miglior artista iraniano del secolo. Nel 2005 gli viene conferita l’onorificenza come personalità europea per la sua arte. Nella primavera del 2017, nella sua città prediletta, viene costituita e ufficialmente riconosciuta dalla Regione Lazio la Fondazione Mohsen Vaziri Moghaddam con sede a Roma. Mohsen Vaziri Moghaddam viene a mancare la mattina del 7 settembre 2018 a Roma. Il 5 dicembre all’Auditorium dell’Ara Pacis, a partire dalle 17, si tiene una serata in suo onore con la partecipazione di storici dell’arte, amici e studiosi.