Dietro giganteschi hotel e modernissimi palazzi semi vuoti si celano le ferite mai rimarginate della guerra civile. Tutto viene annullato in nome della riconciliazione nazionale. Chi devia dal percorso, secondo le autorità libanesi, «istiga alla violenza» e «alle rappresaglie»

La professoressa Carmen Husun Abu Jaudé dell’università Saint Joseph di Beirut non si dà pace: «Come possiamo cambiare la percezione della politica in Libano? Qui si ha l’idea che sia corrotta perché a farla sono dei corrotti, ma in realtà è la fonte per raggiungere la soluzione dei problemi». Ad ascoltarla, in un locale della capitale libanese Beirut, ci sono una sessantina di studenti universitari incuriositi dal tema trattato. Politica è una parola carica di accezioni negative nel Paese dei Cedri: basta vedere l’affluenza alle urne storicamente bassa. Del resto, se per legge le cariche e seggi vanno divisi tra le comunità religiose presenti nel Paese, allora che senso ha andare al votare? Il rigetto della politica istituzionale si riflette negativamente anche nella società civile che, frammentata e sempre più attenta alla difesa della propria setta-gruppo, stenta a creare una vera opposizione dal basso. «Thawra» (Rivoluzione), «Abbasso ai corrotti» gridavano alcuni attivisti durante una manifestazione di protesta tenutasi in occasione del giorno dell’Indipendenza lo scorso 22 novembre. Il titolo dell’iniziativa era tutto un programma: «La nostra indipendenza dal vostro sfruttamento». Ancora una volta nel mirino dei dimostranti era finita l’intera classe politica locale: le voci e cartelli riecheggiavano in parte quelli del movimento You Stink che nel 2015, con il pretesto della crisi rifiuti, era riuscito a creare in Libano per alcuni mesi una vera opposizione dal basso capace di sfidare l’ingessato mondo politico locale. Quell’esperienza…

Il reportage di Roberto Prinzi prosegue su Left in edicola dal 7 dicembre 2018


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