Proviamo a uscire per un attimo dal gioco xenofoboadolescenziale del ministro dell'inferno: se la tracimazione dello sfogo, della rabbia, della cattiveria e della predisposizione alla vendetta fossero gli effetti della disperazione? Attenzione, per carità, qui non si vuole fare un trattato spiccio di sociologia ma la disperazione ha tutto il senso nel suo nome: è disperato chi non riesce più a fabbricarsi speranza ed è quindi afflitto da un inconsolabile sconforto. Pensateci: non è sconforto appoggiare la testa sul proprio posto nel treno regionale che riporta a casa gente consumata dalla stanchezza eppure che ha guadagnato troppo poco per poter rispettare gli impegni?  Non è sconforto rinunciare al necessario per pagare servizi che dovrebbero essere garantiti? Non è sconforto sdoganare odio tra disperati, tutti preoccupati che qualcuno gli rubi un pezzo di disperazione? Il Censis (che invece con i numeri fa sul serio, mica a sensazione) nel suo ultimo rapporto parla di un'Italia in preda a «una sorta di sovranismo psichico prima ancora che politico» che «talvolta assume i profili paranoici della caccia al capro espiatorio, quando la cattiveria - dopo e oltre il rancore ‒ diventa la leva cinica di un presunto riscatto e si dispiega in una conflittualità latente, individualizzata, pulviscolare». E no, non c'è solo l'ostilità contro i migranti, come farebbe comodo a qualcuno: l'Italia è il Paese europeo con la più bassa percentuale (23%) di cittadini convinti di aver raggiunto una condizione socio-economica migliore dei loro genitori (la media Ue è il 30%, il 43% in Danimarca, il 41% in Svezia, il 33% in Germania). Il 96% delle persone con un basso titolo di studio e l'89% di quelle a basso reddito non pensano di poter migliorare la propria vita. E il 56,3% degli italiani dichiara di non credere che le cose stiano veramente cambiando. Sempre a proposito di numeri: il 35,6% degli italiani è pessimista per il futuro, il 31,3% è incerto e solamente il restante 33,1% sfoggia ottimismo. Ovvero speranza. Il problema è complesso, ahinoi, molto di più di come viene raccontato. Nonostante si insista sui migranti per raccattare voti e fomentare paura (nei telegiornali del 2018 sono stati dedicati 4.068 servizi all'emergenza immigrazione, con la stessa ossessione di alcuni potenti) siamo un Paese che ha perso manualità nel provare speranza, semplicemente. E la soluzione richiederebbe passione per la complessità, in questo tempo di banalizzazioni. E invece tutto intorno si spande un po' di superficialotto paternalismo (chi per i compiti delle vacanze, chi per i tradizionalismi e le buone maniere passate) che viene facile facile per rimpiangere il passato. Perché rimpiange il passato (anche quello che non c'è mai stato) chi è incapace (o disperato) nel futuro. Buon mercoledì.

Proviamo a uscire per un attimo dal gioco xenofoboadolescenziale del ministro dell’inferno: se la tracimazione dello sfogo, della rabbia, della cattiveria e della predisposizione alla vendetta fossero gli effetti della disperazione? Attenzione, per carità, qui non si vuole fare un trattato spiccio di sociologia ma la disperazione ha tutto il senso nel suo nome: è disperato chi non riesce più a fabbricarsi speranza ed è quindi afflitto da un inconsolabile sconforto.

Pensateci: non è sconforto appoggiare la testa sul proprio posto nel treno regionale che riporta a casa gente consumata dalla stanchezza eppure che ha guadagnato troppo poco per poter rispettare gli impegni?  Non è sconforto rinunciare al necessario per pagare servizi che dovrebbero essere garantiti? Non è sconforto sdoganare odio tra disperati, tutti preoccupati che qualcuno gli rubi un pezzo di disperazione?

Il Censis (che invece con i numeri fa sul serio, mica a sensazione) nel suo ultimo rapporto parla di un’Italia in preda a «una sorta di sovranismo psichico prima ancora che politico» che «talvolta assume i profili paranoici della caccia al capro espiatorio, quando la cattiveria – dopo e oltre il rancore ‒ diventa la leva cinica di un presunto riscatto e si dispiega in una conflittualità latente, individualizzata, pulviscolare». E no, non c’è solo l’ostilità contro i migranti, come farebbe comodo a qualcuno: l’Italia è il Paese europeo con la più bassa percentuale (23%) di cittadini convinti di aver raggiunto una condizione socio-economica migliore dei loro genitori (la media Ue è il 30%, il 43% in Danimarca, il 41% in Svezia, il 33% in Germania). Il 96% delle persone con un basso titolo di studio e l’89% di quelle a basso reddito non pensano di poter migliorare la propria vita. E il 56,3% degli italiani dichiara di non credere che le cose stiano veramente cambiando.

Sempre a proposito di numeri: il 35,6% degli italiani è pessimista per il futuro, il 31,3% è incerto e solamente il restante 33,1% sfoggia ottimismo. Ovvero speranza.

Il problema è complesso, ahinoi, molto di più di come viene raccontato. Nonostante si insista sui migranti per raccattare voti e fomentare paura (nei telegiornali del 2018 sono stati dedicati 4.068 servizi all’emergenza immigrazione, con la stessa ossessione di alcuni potenti) siamo un Paese che ha perso manualità nel provare speranza, semplicemente. E la soluzione richiederebbe passione per la complessità, in questo tempo di banalizzazioni. E invece tutto intorno si spande un po’ di superficialotto paternalismo (chi per i compiti delle vacanze, chi per i tradizionalismi e le buone maniere passate) che viene facile facile per rimpiangere il passato. Perché rimpiange il passato (anche quello che non c’è mai stato) chi è incapace (o disperato) nel futuro.

Buon mercoledì.