Antonello da Messina e la Sicilia, la Sicilia di Antonello. Sono i due percorsi che lo storico dell’arte e curatore Villa indaga in questo saggio di cui proponiamo un estratto per presentare la mostra al via dal 14 dicembre a Palermo

Antonello da Messina e la Sicilia, la Sicilia di Antonello. Sono i due percorsi che lo storico dell’arte e curatore Villa indaga in questo saggio di cui proponiamo un estratto per presentare la mostra al via dal 14 dicembre a Palermo

«Conosci tu la terra dove fioriscono i limoni?/Brillano tra le foglie cupe le arance d’oro. /Una brezza lieve spira dal cielo azzurro,/ Il mirto è immobile, alto è l’alloro!/ La conosci tu?/ Laggiù!/O amato mio, con te vorrei andare!». Quella terra  impregna la nostalgia di Mignon, ne Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister. Goethe l’ammirò nel 1787, commentando definitivamente: «L’Italia senza la Sicilia non lascia immagine alcuna nello spirito. Qui è la chiave di ogni cosa».

Questa terra che tanta immagine lascia nell’animo la intendiamo anche attraverso gli spazi e la luce, gli sguardi e i sentimenti, i luoghi monumentali e i paesaggi mentali di un pittore che li ha fissati con impasti e velature, cromie e tocchi di biacca, tavole di quercia e di pesco, per Crocifissioni e Pietà e Annunciazioni. Immersi in quella luce che segna e costruisce gli spazi, quella luminosità morbida e intensa, quei meriggi che restano negli occhi di un artista che volle sempre tornare alla sua terra.

E ancor più la comprendiamo attraverso i ritratti di chi l’abitò, nel sedimentarsi e concentrarsi di popoli e genti, stili e linguaggi nell’isola al centro di un Mediterraneo che sei secoli fa era il vero mercato del mondo, il luogo degli scambi delle arti, artisti e artefici. La conosciamo attraverso la mano geniale che sapeva restituirci tutta la vicenda umana di una terra nei volti inquadrati da uno sporto di finestra su cui appoggia il cartiglio con la sua firma, non il loro nome. È lui che li ha fatti vivere, non loro che l’hanno pagato in once d’oro. Li ritrae consegnando allo spettatore un racconto, una storia, un intero trattato sull’umana natura. Ferma l’attimo del respiro, coglie il fremito di un labbro, la certezza di uno sguardo…

Antonio de Antonio, Antonellus messanensis nell’autografia: ciò che di Antonello da Messina è sopravvissuto a terremoti, smembramenti, fallimenti di famiglie, naufragi, alluvioni, pareti umide, incuria degli uomini, ignoranza, avidità, insulse paure, dabbenaggini, è disperso in raccolte e musei fra Tirreno e Adriatico, oltre la Manica, al di là dell’Atlantico. Mari noti e ignoti attraversati nei secoli da mercanti e intenditori, antiquari, critici, diplomatici: tutti affascinati – come Enrico Pirajno, barone di Mandralisca – dagli occhi e dalle luci, dall’incanto enigmatico del più grande ritrattista del Quattrocento (e forse di sempre). Ogni suo pezzo è giunto a noi fortunosamente, avventurosamente: molti misteriosamente. A ciascuno dobbiamo restituire un’attenzione tesa, una riflessione attenta….

A Giovan Battista Cavalcaselle, un mazziniano che raccolse valigie di appunti e disegni, spetta l’amorevole ricostruzione di un primo catalogo del messinese. Di cui un conterraneo, formidabile erudito, Gaetano La Corte Cailler, si impegnò a cercare, trovare e trascrivere documenti notarili oggi per noi imprescindibili, preziosi e unici: il testamento della nonna, il ritorno dalla Calabria con tutta la famiglia su un brigantino noleggiato dal padre; la dote della figlia, l’acquisto di una casa, e il litigio con il vicino. Qualche contratto e infine il testamento, datato febbraio 1479. Altro di lui non c’era: un’alluvione aveva disperso le ossa, più terremoti avevano distrutto prove documentarie a Noto e in altri paesi siciliani. L’antica Messina era già stata distrutta e poi ricostruita nel 1783. Terremoto del 10°, ultimo grado Mercalli, poi maremoto. Di Messina non resta nulla: e nulla dell’ancona fermata negli schizzi precisi e dettagliati di Cavalcaselle, nulla dell’archivio con i documenti trascritti da La Corte Cailler. Senza quelle trascrizioni, senza quegli schizzi, nulla sapremmo del più grande e ammirato pittore siciliano.

Cavalcaselle era giunto in Sicilia alla fine del dicembre 1859 e vi resterà fino al marzo 1860. Con partenza da Palermo, il suo itinerario si svolge per Monreale, Termini Imerese, Cefalù, Alcamo, Castelbuono, Polizzi Sottana, Castrogiovanni (Enna), Leonforte, Catania, Castroreale, Messina e nuovamente Palermo. L’esito è in un taccuino di 81 fogli sciolti e 14 lucidi, oltre a una relazione di quanto visto in due lettere indirizzate a Crowe. Ha cercato informazioni da fonti tradizionali e notizie degli archivi municipali, da eruditi locali, guide diverse, e poi costruendo una rete di rapporti, come quello con il deputato barone Enrico Mandralisca, possessore di un Ritratto d’uomo che certifica ad Antonello in una lettera che accompagna la restituzione di «cappuccio – mantello – e gambali nella speranza che tutto si riportato in buon ordine». Poi a Messina avrà una nuova, più articolata visione di Antonello. Scopre con emozione nel parlatorio del convento di San Gregorio lo smembrato polittico firmato e datato 1473, e ne scrive, entusiasta e definitivo: «Opera stupenda che giustifica le lodi degli scrittori veneziani riguardo Antonello …. Vi basta dire per la bellezza, che il putto sente di Leonardo da Vinci, e come colore supera molte opere dello stesso Bellini. Il tipo e carattere della Madonna sono dei più belli di quanto ho veduto nella scuola veneziana. La mezza figura dell’angelo sente del fiammingo. Ha una certa affettazione come vedesi in Piero della Francesca. Questa pittura mi suggerisce nuove idee e mi fa trovare Antonello quale doveva essere. Antonello occupa un gran posto tra i quattrocentisti (è il creatore della scuola Veneta). L’anno 1473, e il metodo, dolcezza, e fusione di colore giustificano la nostra credenza riguardo all’anno del quadro di Anversa, cioè essere stato quello dipinto nel 1475. Così pure mi prova essere il S. Girolamo di Baring opera di Antonello e non di Van Eyck».

Da allora però molto si è potuto riconoscere, ripulire, attribuire: il catalogo si è fatto scientifico, le ricerche continuano, le discussioni e le attribuzioni si susseguono. Sono avventure che richiederebbero, ciascuna, la penna di un romanziere che sappia conservare la lucidità del saggista. Iniziano Lionello e poi il padre Adolfo Venturi, Bernard Berenson dà contributi fondanti dopo parziali incertezze, Roberto Longhi già nel 1914 scrive con il suo stile mirabile pagine essenziali in cui ricolloca Antonello a fianco dei veneziani e segnatamente di Bellini, e sottolinea il clima e la lezione di Piero della Francesca anche sulla maturazione dello stile unico di Antonello. Longhi lo riconosce anello di congiunzione creativa fra i ponentini, gli amati fiamminghi e la grande stagione veneziana, mediata dall’isolata riflessione sulla prospettiva e la morbidezza della luce centro italiana, i volumi di Piero. Fin dal saggio del 1914 dedicato a Piero dei Franceschi e la pittura veneziana, Longhi legge Antonello nella sua dimensione storico artistica, inscrivendolo in un quadro culturale organico: diventa il fautore della sintesi fra luce e volume, una lezione seguita fino a studi più recenti fondati sulla ricezione della pittura veneziana…

Ma poi, affrettatamente: Voll nel 1902 suggerisce Antonello per una Crocifissione che fa parte della collezione del barone Samuel von Brukenthal e si trova a Hermannstadt. La Storia stabilirà nuovi nomi per nuovi riscatti nazionali: la città del barone diventa Sibiu, e a lungo quella di Antonello diverrà la Crocifissione di Bucarest. Berenson fa acquistare presso l’antiquario fiorentino Augusto Mazzetti nel 1911 la tavola che conosciamo come la Vergine leggente di Baltimora. All’importantissimo convegno messinese del 1981 Federico Zeri annuncia la scoperta di un’opera che definisce giovanile, una tavoletta devozionale di 15 centimetri per 10, consumata dai baci del fedele che se la portava al seguito in un astuccio di cuoio. E ora l’Ecce Homo, con San Gerolamo nel deserto al recto, è a New York. E l’affascinante storia del Barone di Mandralisca che torna da Lipari con il ritratto su tavola di un ignoto il cui beffardo sorriso ha sconvolto la mente della figlia del farmacista nella cui bottega, sportello di mobile, è giunto per vie misteriosissime? Diventa lo splendido romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio, primo capolavoro di Vincenzo Consolo. E a Cefalù, in teca, l’ignoto “baruni” continua ad inquietarci.

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Cinquecentotrentanove anni per rimetterne insieme l’eredità visiva. La mostra Antonello da Messina riunisce a Palermo, in Palazzo Abatellis, dal 14 dicembre 2018 al 10 febbraio 2019, quasi la metà delle opere esistenti di Antonello Da Messina, accanto ad opere coeve. Curata dal professor Giovanni Carlo Federico Villa (già curatore della mostra del 2006 alle Scuderie del Quirinale) nasce dalla collaborazione fra la Regione Sicilia e il Comune di Milano dove la mostra verrà presentata – a Palazzo Reale, in collaborazione con MondoMostre Skira – dopo la tappa palermitana.

Il testo di Giovanni Carlo Federico Villa prosegue su Left n° 50 in edicola dal 14 dicembre 2018


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