L’immaginario di Picasso guida la sua capacità di creare. Fin da giovanissimo impara a padroneggiare un accademismo da cui trae il meglio grazie al proprio virtuosismo tecnico, ma ne riforma totalmente i codici: la forma diventa emozione, l’idea rimpiazza il soggetto. La sua conoscenza dei maestri non può essere messa in discussione, mentre la sua capacità di comprendere e amalgamare i capisaldi della storia dell’arte lo conduce a creare opere inevitabilmente figurative, quali che siano le apparenze e i periodi.
Benché Picasso manifesti una totale rinuncia al Bello ideale, ignorando tutti i criteri estetici, nel suo lavoro persistono potenti indicatori di una cultura classica. La mostra Picasso metamorfosi (dal 18 ottobre al 17 febbraio in Palazzo Reale a Milano ndr) e le ricerche correlate identificano alcune sue fonti di ispirazione antiche e sondano i processi di appropriazione seguiti dal maestro spagnolo. Il titolo dell’esposizione rimanda sia alle Metamorfosi di Ovidio, magistralmente illustrate da Picasso, sia a questa asserzione dell’artista: «Sarebbe interessante fissare in modo fotografico, non gli stati di un dipinto, ma le sue metamorfosi. Forse si scoprirebbe attraverso quale strada un cervello si incammina verso la concretizzazione del suo sogno» (Zervos, 1935). Con queste parole il pittore sembra definire l’atto creativo come il compimento di un sogno la cui concretizzazione gli sfugge. Questa analisi lascia spazio all’intuizione, come all’emergere di modelli profondamente radicati le cui metamorfosi sono più o meno coscienti. Il cammino della forma nella mente di Picasso definisce un percorso basato sull’analisi di una cultura polimorfa i cui orientamenti vengono definiti dalle sue curiosità e dai suoi incontri. Il linguaggio picassiano ricusa e sollecita a un tempo i riferimenti plastici e grafici agli antichi maestri, in un’alchimia in costante mutazione che lascia progredire la concezione dell’opera malgrado lo sfolgorio di forme spontaneamente compiute, al termine di una premeditazione di cui restano ben poche tracce preparatorie. Il cammino che conduce dalle opere alle fonti storiche esplorate dall’artista permette di scoprire le tracce di un’antichità che Ingres e Rodin avevano già fatto propria e i cui codici hanno trasmesso a successore.
Riunire Ingres, Rodin e Picasso intorno al Bacio significa individuare in tale soggetto una costante che a partire dall’antichità ha trovato numerose espressioni. L’importanza del tema per Picasso si manifesta inizialmente negli schizzi del 1899-1900 raffiguranti coppie di amanti che si baciano. L’innovazione picassiana consiste nell’isolare il Bacio trasformandolo nell’espressione di una fusione carnale, fonte di una creatività che attraversa tutte le esperienze plastiche della sua carriera. Nell’opera di Picasso, Il bacio – metafora dell’atto sessuale che giunge fino alla confusione dei corpi – è autobiografico, appassionato ed esasperato. Racconta l’erotismo, la fusione armoniosa e anche – attraverso delle bocche urlanti – la rottura traumatica. Alla fine della carriera, nell’affrontare per l’ultima volta il tema moltiplicando le immagini di coppie avvinghiate e baci e scene di erotismo sfrenato, Picasso suscita aspre critiche come a suo tempo era successo a Ingres con il Bagno turco, bollato come l’opera senile di un artista dall’occhio lubrico ormai al termine della vita. Il fenomeno marca in particolare le mostre monografiche organizzate nel 1970 e nel 1973 al Palazzo dei Papi di Avignone.
Nel corso del 1969 Picasso, incontenibile come sempre, produce ben 165 dipinti tra i quali l’emblematico Bacio del 26 ottobre che sarà presentato al pubblico nel 1970. Le bocche si incontrano nell’intimità di un tratto unitario che fonde due profili come succede nella decorazione di certi antichi oscilla romani. Che si tratti di una somiglianza fortuita o di una reminiscenza delle sue numerose visite al Louvre, Picasso plasma qui una delle ultime metamorfosi di un tema frequentato sin dal 1899. A Ingres era indispensabile il pretesto della pittura di storia e dei suoi temi canonici per suggerire la passione di un Raffaello per la sua musa, la Fornarina, o raffigurare il bacio fatale di Paolo e Francesca, un soggetto trattato anche da Rodin. Sfiorando il fantasma degli amori proibiti – illustrati dalle antiche leggende di Prassitele e Frine, Apelle e Campaspe e quella di Pigmalione e Galatea raccontata da Ovidio – la persistenza del soggetto in Ingres, Rodin e Picasso induce a pensare a un denominatore comune che viene trasmesso attraverso l’educazione artistica. Amori impossibili, desideri inconfessabili, fantasma del rapporto tra il pittore e la modella, al di là della propria sperimentazione Picasso sviscera il tema esposto da Ingres. La dimestichezza con l’opera del maestro neoclassico gli consente di arricchire la sua concezione del tema della coppia e, più in particolare, quello dell’artista e la modella. L’interesse di Picasso si focalizza sul celebre e casto Raffaello e la Fornarina di Ingres da cui scaturirà, nel 1968, una suite di incisioni brutalmente sovversiva, l’ultima opera dedicata al soggetto di tutta una vita.
Un raro dipinto del 1914 evoca invece il tema in pieno periodo cubista, il pittore dinanzi alla modella appare apatico e fronteggia una tela incompiuta che suggerisce malinconia, una crisi di ispirazione venata d’inquietudine. L’inizio del conflitto armato della prima guerra mondiale annunciava allora l’avvento di tempi difficili. In quell’epoca Picasso privilegia nature morte e collage e crea un ritratto cubista di Eva Gouel, la compagna che morirà prematuramente l’anno successivo. La ieraticità del nudo scultoreo della giovane donna che si lascia scivolare tra le mani il leggero vestito, come per stimolare l’ispirazione del pittore, sembra presagire il ritorno al classicismo degli anni successivi. Quest’atmosfera pervasa da un erotismo trattenuto, rara nell’opera di Picasso, si evolve nella suite Vollard comprendente scene di distesa complicità amorosa che celebrano il mito di Pigmalione e Galatea narrato da Ovidio. È quella l’epoca dell’appassionata relazione tra Picasso e Marie-Thérèse Walter che nella suite di incisioni incarna la musa ispiratrice dello scultore inequivocabilmente sedotto dalla propria opera. I rimandi iconografici alla Venere Anadiomene ricordano Prassitele e sottolineano la formazione classica di Picasso, che si rappresenta nelle vesti di uno scultore antico e trae spunto dagli altorilievi ellenistici per creare tramite tratti lineari busti di Marie-Thérèse con cui reinventa la purezza della scultura greca. Questa grazia classica segue l’illustrazione delle Metamorfosi di Ovidio pubblicate nel 1931 da Albert Skira. Il testo dà modo a Picasso di immergersi nella mitologia greca e romana e di mettere alla prova la sua visione dell’antichità. L’autore ragiona sulle nozioni di ut pictura poësis e di ekphrasis, sulla maniera di far comunicare l’immagine e il testo pur preservando la propria sensibilità creativa. Selezionati i racconti da illustrare, Picasso dedica la prima incisione della serie alla morte di Orfeo. L’artista interpreta i testi con uno stile austero: la semplicità dell’incisione al tratto contribuisce a dar vita a figurazioni fluide e spontanee molto prossime alla scrittura. Nelle sue composizioni Picasso coniuga nudità armoniose e campiture piatte dando vita a scene completamente bidimensionali.
Un rimando stilisticamente molto diverso a Ovidio è quello – posteriore di alcuni anni – presente in una delle incisioni della suite Vollard, realizzata il 12 giugno 1936, in cui Picasso raffigura un Faune dévoilant une dormeuse. L’immagine rimanda a Ingres che nel 1851 si era rifatto alla stessa fonte letteraria per il suo Jupiter et Antiope. Antiope addormentata, ancora nuda dopo il bagno, sta per cadere in preda all’ardore di un Giove trasformato in un satiro. Nell’ombra, Eros guida il dio così camuffato che si prepara a possedere la giovane. L’animalità avalla l’atto suggerito che trova la sua giustificazione nell’ambivalenza dell’ibridismo. Sebbene Picasso modifichi il punto di vista, la composizione rivela l’influenza di due dipinti di Ingres: la scena ripartita tra interno ed esterno e le colonnine orientaleggianti citano l’Odalisque à l’esclave; il gesto del satiro che scopre la bella addormentata, quello del dio in Giove e Antiope. Questo gusto per le frenesie amorose saziate dagli antichi dei grazie a molteplici metamorfosi riecheggia anche nel grande Nu dans un jardin creato il 4 agosto 1934. Vi si ritrovano gli stessi elementi presenti in Giove e Antiope: l’ambiente naturale, lo specchio d’acqua, il gesto della grande figura nuda sprofondata nel sonno. Il triangolo scuro al centro e alcune piante nere alludono alla presenza del satiro i cui ardori sessuali vengono trasposti al pittore e da lui all’osservatore. Tale lettura dell’opera – la cui chiave risiede nell’intensità dell’amore che Picasso provava in quel momento per Marie-Thérèse Walter permette di spiegare la potente comunicazione che si ingenera tra il dipinto e chi lo osserva.
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Picasso Metamorfosi – fino al 17 febbraio in Palazzo Reale a Milano – esplora il suo rapporto con il mito e l’antichità. Promossa e prodotta dal Comune di Milano con MondoMostreSkira, è curata da Pascale Picard, direttrice dei Musei civici di Avignone. Il progetto fa parte della rassegna europea Picasso-Méditerranée, promossa dal Musée Picasso di Parigi con altri. La mostra e il catalogo Skira presentano circa 200 opere tra lavori di Picasso e opere d’arte antica a cui si ispirò.