C’è la “old wave”. C’è la “new wave”. E poi c’è David Bowie. Così recitava il poster promozionale di Heroes nel 1977. Ancora oggi messaggio più che attuale. Artista del Novecento e di questo inizio secolo, Bowie – al secolo David Robert Jones – ha rivelato al mondo la sua genialità attraverso lavori che sono diventati fondamentali per le arti: dalla musica alla moda, dalle soluzioni sonore alle innovazioni stilistiche arrivando poi al cinema e al teatro. «L’opera d’arte è compiuta solo quando il pubblico vi aggiunge la propria interpretazione» disse nel 1999. «È proprio in quel grigio spazio intermedio che risiede il senso dell’opera». Oggi, a tre anni dalla sua scomparsa stiamo cercando noi quello spazio per poter comprendere profondamente il significato dei suoi lavori.
Bowie è stato ed è tuttora “altro”. La sua opera e il suo essere poliedrico si distanziano da tutto il resto, sfuggendo ad etichette o a “generi”, proponendo immagini e identità diverse per ogni album pubblicato. Bowie che studiava nei minimi particolari lo stage e gli aspetti visual, le forme di teatro da portare al rock e viceversa, costruì nel tempo quell’aura di mistero e impenetrabilità, giocando sulla androginia e sul mondo degli alieni, forse personale rappresentazione della malattia mentale (il fratellastro era affetto da schizofrenia ndr), condizione spesso narrata nei suoi testi, inventando dapprima il personaggio di Ziggy Stardust e poi arrivando all’interpretazione dell’alieno Thomas Jerome Newton in L’uomo che cadde sulla terra, nel film di Nicholas Roeg.
La sua poetica è stata spesso lacerata ma coinvolgente, di ricerca e di provocazioni, presente nei personaggi che ha interpretato in tutta la carriera sfruttando al massimo, tra i tanti, gli insegnamenti di Lindsay Kemp o lo studio dell’espressionismo tedesco. Già a inizio carriera si presenta…

L’articolo di Stefano Frollano prosegue su Left in edicola dal 4 gennaio 2019


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