Impegnati, controcorrente, soli, non identificati con nessun maestro. Da Rosselli a Camus e Orwell, autori oggi più necessari che mai. Il nuovo libro del critico e saggista Filippo La Porta invita a rileggerli

Il nuovo libro di Filippo La Porta riporta in primo piano intellettuali capaci di unire ricerca, studio e impegno civile; donne e uomini di cui ci sarebbe un gran bisogno oggi. Pensiamo per esempio a figure come quella dell’antifascista Carlo Rosselli che, al confino, scrisse il saggio Socialismo liberale criticando il liberismo economico ma anche una certa antropologia marxista, riduzionista nel considerare solo la realtà materiale. Come molti altri «maestri involontari», «inattuali ed eretici» che incontriamo in questo volume pubblicato da Edizioni di storia e letteratura, Rosselli nutre una grande fiducia nella democrazia, nel progresso, inteso anche come emancipazione personale e trasformazione interiore.

Un pensiero che Rosselli cercò di tradurre in prassi politica con Giustizia e libertà fondata nel 1929, da cui poi nacque l’esperienza del Partito d’Azione. «Se qualcuno oggi mi chiedesse con chi ti riconosci? Io risponderei con la sinistra di Giustizia e libertà», dice La Porta, che pur avendo scritto molti altri libri sugli intellettuali qui distilla il suo libro forse più politico. Saggista e critico letterario che collabora con Left fin da quando si chiamava Avvenimenti, nel corso degli anni spesso ci ha stimolati con domande, proponendo riflessioni e provocazioni per crescere e approfondire. In occasione dell’uscita di questo suo Disorganici. Maestri involontari del Novecento, che molto gli somiglia, gli abbiamo chiesto di tornare a conversare con noi, questa volta in pubblico. (Filippo La Porta presenta il volume sabato 11 maggio alle 16 al Salone del libro a Torino, ndr)

Cominciamo dall’espressione gramsciana “intellettuali organici”, tu ce ne mostri tutta la dolorosa inattualità. I partiti di sinistra oggi soffrono di una grave crisi di rappresentanza. Gli intellettuali a che cosa dovrebbero essere organici? Ai salotti tv? All’industria culturale? In molti lo fanno ridotti al ruolo di pubblicitari e cortigiani…
Nella visione di Gramsci l’espressione intellettuale organico, distinta da quella dell’intellettuale puro, aveva una accezione positiva. Doveva essere organico al proletariato e si doveva battere per l’egemonia di quella classe. Questa figura nobilissima si è degenerata nel tempo. Dagli anni Quaranta agli anni Sessanta si era organici a un partito politico in cambio di potere e privilegi, anche nel Pci.
A me interessano, invece, figure che non sono organiche né ai salotti, né a una lobby, né a corporazioni. Ho cercato personalità «non allineate», per dirla con Fossati. Qualcuno mi ha rimproverato poiché alcuni di loro erano intellettuali di successo per niente ai margini. Si è vero, ma io cercavo l’aspetto più dissidente della loro biografia e del loro pensiero.

Non riconciliati, eretici, indocili, involontariamente contro corrente, soli, non identificati con maestri, i tuoi intellettuali disorganici agiscono sulla scena pubblica come individui. La coerenza fra biografia e pensiero è importante?
Tutti gli intellettuali che ho raccontato qui hanno cercato di vivere le proprie idee. Forse non potremmo dire che siano sempre coerenti, ma sono credibili come intellettuali perché hanno provato in tutti i modi a vivere secondo un proprio pensiero.

Dalla non violenza di Capitini, al dialogo laico di Guido Calogero, dalla democrazia mite di Bobbio alla testimonianza viva di Primo Levi, fino all’azione del partigiano Bentivegna, perché figure così diverse fra loro?
È una mia costellazione personale, non è un pantheon omogeneo: esordisco con l’antifascista Carlo Rosselli, ma cito anche autori lontani da me, che tuttavia- insieme a lui – mi fecero capire da giovane che stavamo usando un linguaggio marxista para religioso e avevamo sostituito dio con il futuro. Dall’altra parte – e questo ti farà piacere – racconto autori super laici come George Orwell che dubitava anche di Gandhi per una certa sua religiosità.

Libertà uguaglianza, inclusione, sono temi che percorrono tutto il volume, è quasi una libro sul futuro della democrazia?
All’inizio uso un’immagine (colpiscono più delle parole), parlo della “democrazia della Ginestra”, citando Giacomo Leopardi. Oggi purtroppo rischiamo di avere un’idea di democrazia solo come tecnica procedurale. Così viene svuotata di contenuti e diventa una mera tecnica di governo, in mano ai poteri invisibili, ad oligarchie. La democrazia, a mio avviso, presuppone dei cittadini con una propria autonomia, responsabili, consapevoli. Io credo che il popolo sia bue nei sondaggi, nelle piazze tv, ma non sia bue quando è autonomo, istruito. Vittorio Foa, che è uno dei miei punti di riferimento, si diceva un estremista moderato. Era un estremista della fiducia nella democrazia, come auto governo delle persone, tutto questo è molto forte in un filone libertario, socialista, anarchico, non violento. La distinzione destra e sinistra c’è ancora.

Chi dice che non c’è più distinzione fra destra e sinistra è di destra, abbiamo scritto in copertina.
Sono d’accordo, ma penso che tutto questo valga soprattutto nella nostra vita quotidiana. Ho capito in età matura che l’impegno politico è fondamentale, ma viene prima quello etico, personale. Una cosa importante è partire da sé. Quanto spazio diamo all’uguaglianza delle persone, al fatto che poi siamo tutti molto diversi, ma abbiamo tutti un destino comune come dice Leopardi nella Ginestra? Il cuore della democrazia è il principio egualitario. Dopo la repressione del G8 Alessandro Leogrande ha scritto che la rinuncia al potere, è l’azione più alta. Trovo sempre più interessante un filone di pensiero che privilegia soprattutto la democrazia di base, le buone pratiche, le azioni dirette, i contro poteri.

Per questo hai incluso personaggi, poco noti, come S. D. Alinsky?
Ha vissuto negli anni Venti, è quasi sconosciuto da noi. È stato uno dei maestri di Obama. Ha inventato a Chicago il sit in, un tipo di azione dimostrativa non violenta, che ha caratterizzato soprattutto il pensiero libertario americano. Nel libro cito anche Colin Ward, anarchico inglese scomparso qualche anno fa. Ipotizzava un welfare che possiamo creare dal basso.

Per restare in America citi anche Christopher Lasch, che analizzò la società del narcisismo, fu tra i primi a criticare il postmoderno e il neoliberismo.
Lo cito in polemica con Eugenio Scalfari, il quale, con Nicola Chiaromonte, era esponente della cosiddetta terza forza, de Il tempo presente. Doverebbe essere la stessa area da cui è nata La Repubblica, ma secondo me si è persa completamente la radicalità di pensiero. Scalfari dice che è fondamentale il riconoscimento da parte degli altri, insiste sul riconoscimento sociale, Chiaromonte invece parlava, addirittura, del diritto a restare in disparte, a restare invisibili. Quel bisogno anche ossessivo di riconoscimento, può diventare quell’ansia di visibilità di cui parlava Lash. Un’esistenza non è degna quando viene riconosciuta dagli altri, altrimenti finiamo nella società dello spettacolo. Io penso che sia importante il modo con il quale ci relazioniamo agli altri. Alla personalità narcisista interessa solo essere ammirata, nemmeno stimata. Anestetizza le emozioni.

Nel confronto fra Sartre e Camus tu ti schieri chiaramente con quest’ultimo. Non stai dalla parte di Sartre che orchestrava campagne contro Albert Camus, perché non era filo stalinista.
Sartre è stato un pensatore importante per la mia generazione. E alla fine mi stava anche simpatico. Era uno che faceva volantinaggio davanti alle fabbriche. Una volta lo avevamo invitato ad un incontro con gli studenti in università, lo abbiamo atteso tutta la sera, non è mai arrivato! Il punto dirimente è che Sartre ha difeso le cause peggiori, era un esempio di intellettuale organico e ha difeso perfino lo stalinismo. In polemica con Camus, Sartre disse che non bisognava far sapere la verità sull’Urss agli operai perché si sarebbero demoralizzati. Camus rispose, guarda che ti sbagli, la verità va detta sempre, se non la dici oggi, prima o poi la pagherai; mette al primo posto un impegno innanzi tutto etico. La sua famosa frase «mi rivolto dunque siamo» ci dice che la ribellione nasce come atto individuale ma prefigura una collettività.

Il direttore di Radio3 Marino Sinibaldi ha notato che questo libro è anche un’autobiografia. A me pare di cogliere anche spunti di riflessione filosofica, quando accenni a un’idea di natura umana fondamentalmente «buona», di interesse naturale per gli altri, quando privilegi una critica anche aspra, ma non distruttiva, perché nasce da un profondo interesse verso l’altro. Sbaglio?
Negli anni 70 ero un estremista. Ovviamente non me ne pento. Anche perché quegli anni mi hanno formato. Ma poi ho capito che in effetti c’era un’idea di rivoluzione come negazione; c’era in quegli anni, in gran parte del movimento. Intendiamoci, criticare il mondo è importante, tutto il pensiero occidentale nasce da questo. Socrate criticava il sistema, ma è importante sapere in nome di cosa critico l’esistente. Se una critica all’esistente non si alimenta dell’amore per qualcosa, rischia di restare arida.

Parli di autori del Novecento, ma li connetti al presente. Scrivendo di Carlo Levi lo definisci un No global ante litteram. Perché oggi abbiamo politici di destra che si fingono No global mentre gli intellettuali di sinistra tacciono. Che succede?
Mi fai ricordare che Salvini ha impunemente citato Simone Weil qualche mese fa, come se fosse una sua pensatrice di riferimento. «Le idee sono delle puttane vanno con tutti», diceva Diderot. Oggi tutti possono citare tutti, dunque è tanto più importante il rapporto fra le idee e il proprio modo di vivere, per questo all’inizio parlavo di credibilità. Da ultimo Andreotti citava Pasolini. Ognuno può dire quello che gli pare ma questo è un pessimo sintomo di una cultura svuotata, ridotta a retorica.

L’intervista di Simona Maggiorelli a Filippo La Porta è stata pubblicata su Left del 18 gennaio 2019


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