«Stanno emergendo fatti inquietanti e gravi che si stanno verificando al di fuori di questo processo. Testimoni che vengono avvicinati, depistaggi che si stanno protraendo nel tempo e continuano mentre è in corso questo procedimento», dice Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi, in apertura di udienza. Il processo sulla morte di Stefano Cucchi, e quello che gli è accaduto intorno, e ancora gli accade, restituisce uno spaccato inquietante sul contegno dell’Arma, dalle stazioni in cui s’è svolta la tragedia del giovane geometra romano, nei sei giorni dell’ottobre del 2009 in cui è stato in balìa di chi avrebbe dovuto garantirne l’incolumità, dall’arresto fino alla morte, lontano dagli occhi di tutti, nel repartino penitenziario del Pertini. Anselmo, legale di questa e altre parti civili in processi di malapolizia, si riferisce al filone dell’indagine sui falsi e sulle presunte pressioni dei vertici dei carabinieri seguiti al pestaggio e alla morte di Cucchi. «Possiamo anche voltarci dall’altra parte e dire che saranno oggetto di altri procedimenti – ha detto ancora – ma esprimo tutto il mio rammarico rispetto alla reiterazione di questi episodi in queste forme illecite e inaccettabili in uno Stato di diritto».
Il 12 novembre 2009, ci fu una riunione, venti giorni dopo la morte di Stefano Cucchi, che si svolse alla Cecchignola, convocata dall’allora comandante provinciale dei carabinieri di Roma per fare il punto sulla vicenda e in quella occasione si parlò anche del caso Marrazzo, scoppiato il 23 ottobre, per un’estorsione di cui fu vittima pochi mesi prima l’ex governatore e per la quale lo scorso novembre sono stati condannati quattro carabinieri. Emilio Bucceri, all’epoca comandante della stazione Appia (ma non in servizio in quel periodo) è stato sollecitato proprio su quella riunione in questo processo bis davanti alla I Corte d’assise del Tribunale di Roma.
«L’unica riunione alla quale ho partecipato fu un briefing indetto dall’allora comandante provinciale in una nostra caserma alla Cecchignola – ha detto Bucceri – c’erano il comandante provinciale e, scendendo la scala gerarchica, i comandanti di gruppo, quelli di compagnia e quelli delle stazioni. Da poco c’era stato anche l’accadimento Marrazzo, dove erano coinvolti dei carabinieri per una vicenda estorsiva e fu fatto riferimento dal generale Tomasone a questi due fatti e alla gestione del personale». Questa riunione si svolse una decina di giorni dopo quella nella sede del comando a Piazza San Lorenzo in Lucina alla quale però il maresciallo Bucceri non partecipò. Nel corso del suo esame, ha ricordato quanto gli disse il maresciallo Roberto Mandolini, suo vice e imputato in questo processo, poco dopo la morte di Cucchi: «Riferendosi alla Polizia penitenziaria, mi disse “glielo l’abbiamo consegnato che era sano…Ci vogliono tirare dentro”».
Una delle molle ad innescare i depistaggi sulla vicenda potrebbe essere stata proprio la concomitanza con i due scandali – Marrazzo e Cucchi – che coinvolsero la compagnia Trionfale e quella di Montesacro della Benemerita, il terrore per la loro risonanza mediatica e le ripercussioni sulle carriere di grandi e piccoli gradi.
In aula oggi ha parlato anche Giuliana Tedesco, la sorella di uno degli imputati, Francesco Tedesco, il carabiniere che, nove anni dopo ha deciso di smarcarsi dai suoi colleghi: «Fu un’azione combinata – aveva dichiarato il militare -. Cucchi prima iniziò a perdere l’equilibrio per il calcio di D’Alessandro poi ci fu la violenta spinta di Di Bernardo che gli fece perdere l’equilibrio provocandone una violenta caduta sul bacino. Anche la successiva botta alla testa fu violenta, ricordo di avere sentito il rumore. Spinsi Di Bernardo ma D’Alessandro colpì con un calcio in faccia Cucchi mentre questi era sdraiato a terra. Gli dissi “basta, che cazzo fate, non vi permettete”. […] “colpiva Cucchi con uno schiaffo violento in volto” e l’altro “gli dava un forte calcio con la punta del piede”». Questo si legge nei verbali e sua sorella ha aggiunto qualche tassello.
Dopo l’apertura dell’inchiesta bis, non appena seppe di essere indagato, Tedesco le chiese di custodire un computer. Da lì avrebbe scritto la relazione di servizio subito dopo la morte di Stefano. Che fine ha fatto quella carta? È stato accompagnando suo fratello negli incontri col suo legale che Giuliana Tedesco ha appreso, pezzo per pezzo, la vicenda in cui è coinvolto il fratello minore. Per esempio sentì che «Cucchi venne picchiato da due carabinieri che non stavano nei verbali». Inoltre scoprì la tensione che correva tra suo fratello e i suoi colleghi coimputati e l’inconsueto comportamento «paternalistico» del maresciallo Mandolini, il loro comandante di stazione che, in genere «era uno che faceva pesare il grado». Sarebbe molto cambiato suo fratello dopo la sospensione: «Da lì ha iniziato a staccarsi da questo ambiente e ad essere libero mentalmente. È cambiato tantissimo, forse si è rassegnato».
Il ruolo di Mandolini, comandante dei carabinieri che secondo l’accusa arrestarono e pestarono Cucchi, sta emergendo piano piano, mentre i giorni prima di questa udienza sono stati costellati da altre scoperte (una radiografia taroccata delle vertebre di Cucchi, gli appelli allo “spirito di corpo” rivolti da un ufficiale a un maresciallo che doveva venire a testimoniare) dell’inchiesta parallela, quella che scaturisce dalle rivelazioni in aula e di cui ha fornito un saggio il capo della squadra mobile di Roma che sta conducendo le indagini per conto del pm Musarò.
Il suo esame continuerà l’8 febbraio alla ripresa del processo ma già oggi Luigi Silipo ha illustrato in aula le intercettazioni che chiariscono la vicenda delle annotazioni di servizio dei due piantoni in servizio nella caserma di Tor Sapienza dove Cucchi passò la notte dopo l’arresto. Quelle dichiarazioni furono “aggiustate” dal tenente colonnello Cavallo, vice comandante di gruppo a Roma all’epoca dei fatti. Uno dei due carabinieri rifiutò di metterci la faccia, l’altro accettò le pressioni dall’alto e ora è indagato a sua volta. In un’altro file Di Sano, il carabiniere che ha firmato l’annotazione taroccata parla con suo cugino, che è avvocato e gli consiglia di conservare lo screenshot delle mail «per ricattare l’Arma» (altra ipotesi di reato). Anche un maresciallo, comandante a quei tempi a Tor Sapienza, chiese a sua figlia di insegnargli come si fa a fotografare le schermate del computer. Il suo comandante di compagnia, da quanto sta emergendo dall’analisi delle intercettazioni, gli consigliò di non farsi troppe domande.
Chiunque, in questa storia, teme perquisizioni, intercettazioni, teme o esercita ritorsioni, prova a fare qualche mossa per pararsi, spesso commette altri reati magari perché per tre mesi, come il carabiniere che firmò l’annotazione fasulla, non riusciva a tornare a casa. Tutti si erano resi conto delle condizioni di Stefano che, invece, nelle annotazioni di servizio furono minimizzate. E, invece di una seria inchiesta interna, il governo di allora dichiarò l’estraneità a prescindere della Benemerita (ministro della Difesa era La Russa) e i vertici dell’Arma convocarono quella che un maresciallo, intercettato, chiamò «la riunione degli alcolisti anonimi» coinvolgendo tutti quelli che ebbero a che fare con Stefano nelle primissime ore del suo calvario.