A distanza di duecento anni da quando Leopardi scrisse la poesia “L’infinito”, i critici letterari sono concordi nel ritenere che questi versi siano unici e insuperabili per la loro bellezza e per un linguaggio universale capace di arrivare a chiunque. Ma se la potenza lirica dell’autore viene condivisa da tutti, rimane aperto l’interrogativo se il poeta fosse affetto o no da una depressione. Sarebbe impossibile e oltretutto scorretto formulare alcuna diagnosi su una persona in assenza di un rapporto psicoterapeutico, tanto più se parliamo di un uomo che ha vissuto due secoli fa e con una personalità complessa e con una mente geniale. Invece ci sembra importante cercare di superare l’immagine dell’uomo depresso e sfortunato perché afflitto da una malattia fisica invalidante. Pochi giorni fa è stato pubblicato un interessante articolo sul Corriere della Sera in cui il dottor Erik Sganzerla, direttore del reparto di Neurochirurgia dell’Ospedale di Monza esaminando le migliaia di lettere di Leopardi, ha ipotizzato, partendo dai sintomi che lui stesso descriveva, che Giacomo non soffrisse di una malattia tubercolare ossea, il morbo di Pott, come si è sempre creduto, ma di una spondilite anchilosante, una forma di artrite autoimmune di origine genetica. Secondo il medico i sette anni di studio «matto e disperatissimo» contribuirono ad aggravare la sua deformazione alla quale si aggiunsero problemi della vista a fasi alterne, disturbi intestinali, complicanze cardiopolmonari che lo portarono alla morte a 39 anni. Con questa indagine Sganzerla escluderebbe la diagnosi di “depressione psicotica”, come riportano alcuni studi recenti, giustificando la sua morte precoce a causa di una malattia genetica e allo stress indotto dallo studio. Il neurochirurgo dichiara infatti che sebbene questa malattia fisica possa avere influenzato alcuni tratti caratteriali, «non si può certo parlare di depressione in un uomo che come Leopardi viaggiò molto e, fino alla fine dei suoi giorni, continuò a creare moltissimo: aveva tanti progetti da realizzare ed ebbe sempre il coraggio di proiettare il suo sguardo oltre gli ostacoli». Non ci interessa ora disquisire sulla malattia fisica di Leopardi, né tanto meno, come dicevamo prima, arrivare ad alcuna diagnosi psichiatrica, quanto riprendere il pensiero espresso in questa intervista, cioè che l’autore de “L’infinito” fosse non solo una persona vitale, un’opinione che gli stessi studiosi di Leopardi condividono pienamente, ma capace di ribellarsi ad un ambiente bigotto e opprimente e di esprimere la propria creatività ai massimi livelli. Riportiamo, per esempio, qualche commento tratto dalle interviste ai massimi esperti del poeta (raccolte in alcuni dvd pubblicati da La Repubblica intitolati Giacomo Leopardi, il poeta infinito). La professoressa Fabiana Cacciapuoti, presidente del Centro mondiale della poesia “Giacomo Leopardi” lo definisce «un uomo sensibilissimo, affettivo, con una vitalità capace di “reggere” un corpo che non poteva essere ignorato. Una vitalità prorompente e una voglia di vivere che gli permette di andare avanti, che gli permette di penetrare nell’animo umano». Franco D’Intino professore dell’Università “la Sapienza” di Roma conferma che Leopardi è un poeta pieno di energia, è soprattutto una mente geniale come ce ne sono pochissime. Il poeta possedeva una creatività che non si è mai interrotta, un’autostima, una certezza di sé, una voglia di contare, anche di essere famoso. Tutti tratti che non appartengono al quadro clinico di un depresso. Giacomo si è sempre ribellato: nato nel 1798 sotto lo Stato pontificio, a vent’anni, nel 1818 abbandona la religione e diventa ateo. Critica aspramente la madre Adelaide Antìci, fervente cattolica, affermando in una lettera che sebbene prima avesse una grande sensibilità, è ridotta così a causa della religione e della ragione. Non tollera più il padre Monaldo, uomo bigotto e reazionario che rifiuta i valori della Rivoluzione francese, iperprotettivo verso Giacomo, comportamento che il figlio diventato adulto, rifiuta. Quando a ventuno anni tenta invano di fuggire da Recanati, scrive una lettera (mai inviata) al padre in cui afferma che lui «non è fatto per vivere come i suoi antenati». Rifiuta di identificarsi con il padre e lo accusa aspramente di non aver mai avuto fiducia nei figli. «Ella non ha mai creduto che noi fossimo nati a niente di grande» scrive Giacomo. A Napoli si scontra con gli intellettuali hegeliani e con i cattolici che censurano le sue Operette morali perché fortemente intrise di ateismo. Questi sono solo alcuni dei tanti esempi in cui emerge l’immagine di un uomo capace di opporsi ad ogni sopruso. Ma come si concilia questa vitalità prorompente con il pessimismo che lo ha accompagnato fino alla fine dei suoi giorni? Per rispondere a questa domanda non è sufficiente dire che Leopardi appartiene a quella corrente degli scrittori romantici della prima metà dell’800 nei quali prevale lo stato malinconico, uno struggimento che ha in sé però una vitalità che non li rende mai passivi. Infatti, anche quando pensa che la natura non sia più buona, ma la definisce una matrigna cattiva, Leopardi lotta contro di essa. Questo contesto storico-culturale non spiega del tutto i momenti in cui Giacomo cade in una desolazione senza fine. Una disperazione che manifesta in molti suoi versi, come nella poesia “A Silvia”in cui scrive: «Anche peria tra poco/ la speranza mia dolce: agli anni miei /anche negaro i fati/ la giovinezza». Dai suoi scritti potrebbe emergere a prima vista un quadro depressivo. L’ipotesi che possiamo fare è che la sua visione cupa della vita non fosse dovuta a una depressione, patologia mentale che implica una lesione dell’immagine interna, ma ad una oppressione esterna cui Leopardi si oppone, mantenendo la sua integrità. In entrambi i casi il tono dell’umore è basso, ma c’è una differenza sostanziale.
Nella depressione la persona presenta, per le molte delusioni, ferite dell’Io che lo hanno reso poco resistente a quei rapporti che negano o annullano la sua identità. Il mancato riconoscimento da parte dell’altro lo fa cadere nell’odio, un sentimento che poi viene rivolto verso se stesso, aumentando sempre più la propria disistima.
Invece, qualora sia presente un’oppressione, come pensiamo nel caso di Leopardi, di fronte all’elemento patogeno esterno che lo fa soffrire, l’individuo non si ammala perché non va incontro né al vuoto mentale né a quello affettivo. Pertanto in questa circostanza, non possiamo parlare di patologia, ma di una dolorosa lotta per preservare la creatività e gli affetti. Giacomo era consapevole di essere circondato da un ambiente opprimente e mortifero. Nel novembre del 1819, non essendo riuscito a fuggire dal “borgo natio” scrive a Pietro Giordani: «Sono così stordito dal niente che mi circonda, che non so come abbia forza di prender la penna per rispondere alla tua…». Leopardi, caduto in uno stato di desolazione, avverte il vuoto dell’ambiente intorno a sé, ma non ha la conoscenza delle dinamiche della realtà interna, conoscenza che lo renderebbe più resistente agli attacchi. Non ha compreso che la natura matrigna che dà la vita e poi la distrugge, è la rappresentazione della madre anaffettiva, come suggerisce la professoressa Cacciapuoti.
Ho potuto studiare e approfondire la personalità di Leopardi in occasione di un convegno dal titolo “Profondissima Quiete” promosso dall’associazione Ipazia ImmaginePensiero nel settembre del 2017. Gli spunti per quella ricerca li avevo trovati negli scritti e nei seminari di Analisi collettiva condotti dallo psichiatra Massimo Fagioli per più di quaranta anni. Per Fagioli gli artisti possiedono un grande intuito perché conservano la sensibilità di quel periodo della vita in cui la parola ancora non c’è. Lui scrive: «I poeti riescono a urlare, lamentarsi, ridere e cantare proprio come neonati». E a proposito de “L’infinito”, in Left del 23 aprile 2016 si legge: «La fantasia di Leopardi, realizzando la solitudine, crea parole nuove che parlano del misterioso silenzio della nascita».
Se si ricrea la “nascita”con parole nuove, allora non c’è alcuna malattia mentale.
Si ribellò ai genitori, rifiutò la cecità della religione, creò versi altissimi e universali. Fu tutt’altro che patologicamente depresso, anche se non ebbe vita facile. Nuovi studi dicono che fisicamente fu stroncato da una malattia genetica