Nessuno si faccia illusioni: né su Trump, né sui Cinque stelle. Parliamo dell’ipotesi del ritiro dall’Afghanistan, la più lunga e costosa guerra in cui sono coinvolti gli States e in cui l’Italia è il secondo contingente sul terreno. In questa vicenda non ci sono pacifisti: se Trump si vuole ritirare è in nome dell’America first, non certo per amore della pace o dei diritti della popolazione dell’Afghanistan in ostaggio di fondamentalisti imperialisti o islamici. Se la ministra Trenta gli va appresso è solo perché l’urgenza dei Cinque stelle è quella di differenziarsi dalla Lega in questo rush finale verso le europee a cui il giallo della coalizione arriva in affanno con l’onta di ripetuti voltafaccia su tutti i temi qualificanti, solo col magro e controverso bottino del reddito di cittadinanza.
Media internazionali e analisti – gli stessi che hanno pompato la dottrina della guerra globale – sono scettici sulla affidabilità dei talebani e sulla tenuta di un eventuale accordo. Molti sostengono che il Paese potrebbe cadere nel caos, come successe dopo il ritiro dell’Armata rossa nel 1989 o come in Iraq dopo il rientro dei soldati Usa deciso da Obama. Così l’intesa viene presentata come una resa ai talebani, con i rischi di un ritorno della sharia e della segregazione femminile, offuscando i dati evidenti delle mancate promesse di sradicare i talebani e sradicare le coltivazioni di papavero da oppio, mai così floride. «Non possiamo dire che non l’avevamo detto – spiega a Left Franco Uda, responsabile internazionale dell’Arci – che sarebbe stato un fallimento: nessuno degli obiettivi della missione è stato conseguito in un Paese che è in guerra da 40 anni e l’età media è di 60. La guerra non è solo il fronte e le bombe, la guerra è la disgregazione delle vite e della società».
«Perché eravamo lì? Bin Laden è stato trovato e ucciso già otto anni fa e nemmeno era in Afghanistan ma in Pakistan. La verità è che ancora una volta l’Italia si muove agli ordini della Casa Bianca», dice anche Norma Bertullacelli, pacifista storica, una delle animatrici dell'”Ora di silenzio per la pace”, iniziativa che da 870 settimane, ogni giovedì dall’11 settembre 2001, si tiene sui gradini di Palazzo Ducale a Genova. La pratica dell’ora in silenzio, maturata nelle battaglie pacifiste dei primi anni 80, ha origine dal bisogno di superare le differenze e di unire su un obiettivo comune: le parole spesso dividono; «il silenzio crea un’atmosfera di rispetto e di intesa che accomuna e ci fa solidali gli uni con gli altri».
Ma Trump preferisce venire a patti per uscire da una palude che in passato ha inghiottito molti imperi. Per esempio quello sovietico, con la Russia che tenta ora di inserirsi anche su questo teatro come mediatrice, invitando a Mosca il 5 e 6 febbraio non solo i rappresentanti dei talebani ma anche del governo di Kabul.
«Se sarà raggiunto un accordo di pace ritirerò le truppe dall’Afghanistan», ripete Donald Trump sfidando non solo il monito dell’intelligence del suo Paese ma anche l’emendamento che il Senato ha approvato, 68 a 23, per mettere in guardia contro il «pericolo di un ritiro precipitoso» delle truppe Usa da Siria e Afghanistan, per il permanere della minaccia terroristica. Una iniziativa partita dal leader dei senatori repubblicani Mitch McConnell, che finora si era distinto per l’assenza di critiche al presidente. «Il mio emendamento riconosce il fatto evidente che Al Qaeda, l’Isis e i suoi associati in Siria e in Afghanistan continuano a rappresentare una minaccia seria», ha spiegato McConnell, che ha incassato, oltre ai voti del Gop, Grand old party, anche molti voti democratici in un Congresso che ha sfidato il presidente in modo bipartisan pure sul caso Khashoggi. Ma Trump continua a muovere sulla scacchiera internazionale e già il 1 febbraio potrebbe annunciare anche il ritiro degli Usa dallo storico trattato con la Russia sui missili nucleari a raggio intermedio (Inf, quello sugli “euro missili”), firmato da Reagan e Gorbaciov e pietra miliare della fine della Guerra Fredda. Washington accusa Mosca di averlo violato ripetutamente, ma tecnicamente ci sono ancora sei mesi per salvarlo, scongiurando una nuova corsa al riarmo. «Il tempo mi darà ragione», profetizza il tycoon alla Casa Bianca, dopo aver nuovamente umiliato ieri i suoi 007 («dovrebbero tornare a scuola») che lo avevano sconfessato sull’Iran, sulla Corea Nord e sull’Isis «che resta una minaccia».
Il presidente vuole arrivare alle prossime elezioni mantenendo la promessa del ritiro dei soldati non solo dalla Siria ma anche dall’Afghanistan, per mettere fine alla guerra più lunga e costosa nella storia americana. Una mossa che trascinerebbe anche gli alleati Nato, tra cui l’Italia, dove sono ancora vive le polemiche per l’annuncio della ministra della difesa Elisabetta Trenta di cominciare a pianificare il ritorno dei nostri 900 soldati da Herat – secondo contingente dopo quello americano, presente dal 2002 per una missione prima combat poi operazione di mero addestramento e costata la vita a 54 italiani – nello stesso giorno in cui gli Usa hanno annunciato una bozza di intesa con i talebani. E senza informare il ministro degl Esteri, Enzo Moavero Milanesi, creando più di qualche sussulto nella maggioranza e nell’opposizione.
La nuova telenovela della maggioranza va in onda da lunedì 28 gennaio, ma forse ora registrerà un colpo di scena sulla scia del Senato Usa, quando la ministra, diciassette anni dopo l’entrata in guerra nella santa alleanza Bush-Blair, ha annunciato di voler chiudere la storica missione «entro 12 mesi» creando un nuovo caso nel governo, cogliendo molti di sorpresa. A cominciare dal ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi – «lo apprendo ora» – mentre la Lega derubrica la questione a una mera valutazione di Trenta: «Nessuna decisione è stata presa». «Il ministro Trenta ha dato disposizioni al Coi, il Comando operativo di vertice interforze, di valutare l’avvio di una pianificazione per il ritiro del contingente italiano in Afghanistan», hanno fatto sapere fonti della Difesa. Una decisione, precisano le stesse fonti, discussa con gli alleati americani, con la Nato e con le autorità afgane, e collegata all’annuncio dell’amministrazione Trump. Palazzo Chigi ha precisato che l’iniziativa del ministro della Difesa «è stata condivisa dalla presidenza del Consiglio» ma la Nato ha frenato: «Non lasceremo l’Afghanistan prima di avere una situazione che ci permetterà di ridurre il numero di truppe, il nostro obiettivo è quello di impedire che il Paese torni ad essere un paradiso sicuro per il terrorismo internazionale», ha detto il segretario generale Stoltenberg. «È troppo presto per speculare sul ritiro».
La lobby militare mastica amaro. Il ritiro deve avvenire «in maniera concordata tra i Paesi coinvolti nella missione, nell’unica sede deputata, che è l’alleanza, quindi a Bruxelles, a livello politico prima e a livello militare successivamente. Così come la missione venne disegnata inizialmente, definendo obietti e il tipo di apporti di ognuno, altrettanto il ritiro doveva essere concordato. Se non c’è stato questo siamo di fronte a un comportamento da biasimare su tutta la linea», ha detto Leonardo Tricarico, già capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica, oggi presidente della Fondazione Icsa (Intelligence culture and strategic analysis). «Se le decisioni statunitensi sono state prese senza una concertazione con gli alleati presenti in Afghanistan segnatamente con l’Italia questo – sottolinea l’ufficiale – non è solo un fatto di maleducazione istituzionale ma anche uno sgarbo immeritato verso chi non si è mai sottratto agli appelli statunitensi, e quello più emblematico è proprio relativo all’Afghanistan dove siamo accorsi dopo l’attentato alle Torri Gemelle, come segno di solidarietà verso un Paese in grande difficoltà. La concertazione in una missione multinazionale non è un fatto formale ma attiene all’efficacia e alla sicurezza dell’intero apparato dato che, se viene a mancare l’apporto dell’operatore dominante, in questo caso gli Stati Uniti, la missione perde senso e diventa molto rischiosa anche nella fase di ritiro». Quanto può essere rischioso ritirare le forze di sicurezza occidentali ai fini della pace e della sicurezza del Paese? «Bisogna vedere il presunto accordo tra gli Stati Uniti e i talebani, se c’è stato – chiarisce Tricarico – e se i talebani manterranno fede all’accordo. Se si impegnassero a tenere l’Afghanistan fuori dalla minaccia terroristica sicuramente ci si potrebbe ritenere soddisfatti anche alla luce degli interessi nazionali. Ma se ci dovesse essere davvero un ritiro bisognerà necessariamente sedersi tutti insieme intorno a un tavolo e decidere tutti insieme, secondo una visione di sicurezza e di futuro».
Nel dettaglio, a fronte di un dimezzamento del contingente in Iraq, con l’annunciata chiusura nel primo trimestre di quest’anno della task force Praesidium (i 470 militari a protezione della diga di Mosul), per quanto riguarda l’Afghanistan era previsto solo il rimpatrio di un centinaio di uomini e la prosecuzione «a tempo indeterminato» della missione Resolute support, di addestramento delle forze di sicurezza locali. Un alleggerimento ritenuto necessario per consentire un maggior impegno in Africa, dove sono concentrati gli interessi nazionali e dove la Difesa guarda soprattutto alla missione in Niger, alla Libia e al possibile invio di un contingente in Tunisia nell’ambito di un’operazione Nato. L’annuncio di Trump, però, avrebbe scombinato i programmi e la Difesa si è messa al lavoro per pianificare una veloce exit strategy da Kabul. Si tratta di riportare a casa una forza ancora molto consistente – il Parlamento ha autorizzato, per i primi 9 mesi del 2019, fino a 900 militari, 148 mezzi terrestri e 8 mezzi aerei – che ha la responsabilità di un’area grande quanto il Nord Italia e che è fondamentale per la missione di addestramento della Coalizione internazionale, di cui siamo uno dei Paesi più importanti. Insomma, una decisione pesante, che però ha lasciato di stucco il responsabile della Farnesina, in visita a Gerusalemme: il ministro Trenta «non ne ha parlato con me», ha detto Moavero.
Gelo dal Carroccio: «solo una valutazione del ministro Trenta, nessuna decisione è stata presa». E mentre il Movimento 5 stelle esulta – «una splendida notizia», dice ad esempio Di Battista – dall’opposizione attaccano: Pd, FI, FdI criticano a vario titolo l’annuncio del ritiro dato «a mezzo stampa e non in Parlamento», dove il ministro della Difesa viene invitata a riferire «con urgenza» per chiarire il «cambio repentino di politica estera», oggetto di «indiscrezioni e smentite che sono irresponsabili e vanno oltre il surreale». «L’Italia si ritira dall’Afghanistan ma mezzo governo non lo sa. Annuncio improvvido sulla pelle dei nostri soldati», sintetizza Anna Maria Bernini, capogruppo di Forza Italia al Senato, con un tweet. «Da questa e da quella sponda dell’Atlantico – riprende Uda – la politica è incapace di trovare una soluzione. In Italia le opposizioni sono contro il ritiro, come la Lega – è paradossale che la sinistra non riesca nemmeno ad agire sulle contraddizioni di questo governo aprendo una grande discussione su questi temi».
Nell’intesa preliminare i talebani si impegnano a garantire che l’Afghanistan non sia più usato come piattaforma per gruppi terroristici, a partire da Al Qaeda, che dopo l’11 settembre indusse gli Usa ad invadere il Paese. Ma ci sono altre due condizioni poste dagli Stati Uniti per lasciare completamente il Paese, dove hanno 14 mila soldati: il cessate il fuoco e colloqui diretti con il governo di Kabul. Due punti su cui la delegazione dei talebani ha chiesto tempo. Intanto, dall’ultimo rapporto trimestrale dell’ufficio dell’ispettore generale speciale per la ricostruzione dell’Afghanistan (Sigar) diffuso proprio dopo i «progressi» annunciati negli ultimi colloqui tra gli Usa e i Talebani in Qatar, si evince che il governo di Kabul controlla o ha influenza sul 53,8% distretti dell’Afghanistan. Tra luglio e ottobre 2018, riporta l’agenzia di stampa Dpa, il governo ha perso il controllo di almeno sette distretti su 407. Gli insorti controllano almeno il 12,3% dei distretti e il restante 33,9% risulta conteso. In termini di popolazione significa che il 63,5% degli afghani vive in aree in mano al governo, il 10,8% in zone sotto il dominio dei Talebani e il 25,6% in territori contesi. Il rapporto mostra un lento ma costante calo del controllo e dell’influenza del governo afghano sulla popolazione. A ottobre, le forze afghane contavano circa 308.700 unità, sul totale teorico previsto di 360mila, il dato più basso da gennaio 2015. La scorsa settimana il presidente afghano Ashraf Ghani ha ammesso che dal 2014 sono più di 45mila i caduti tra le forze afghane. Lo scorso anno lo stesso Ghani aveva parlato di 28mila caduti dal 2015. Un rapporto dell’intelligence Usa afferma che «né il governo afghano né i talebani saranno in grado di guadagnare un vantaggio strategico militare nella guerra afghana nel prossimo anno, neppure se gli Usa manterranno il loro attuale livello di supporto». Tuttavia, ha aggiunto Dan Coats, direttore della National Intelligence, gli attuali sforzi per un accordo di pace con i talebani e la decisione su un possibile ritiro delle truppe Usa potrebbero giocare un ruolo chiave nel decidere la direzione del Paese nei prossimi anni.