«Sei il nemico del Sudan. Non sei la benvenuta nel nostro Paese. Se non ci ascolterai e tornerai qui, te ne pentirai. Ma sarà troppo tardi». Poche parole, un testo chiaro: chiunque parli delle rivolte sudanesi è un nemico da abbattere.
A inviare questo messaggio un sedicente gruppo di Fratelli musulmani sudanesi che dopo aver letto del mio fermo in Sudan su un giornale in lingua araba ha pensato bene di minacciarmi per impedirmi di scrivere su quanto stia avvenendo nel Paese africano governato da Omar Hassan al Bashir, un ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità e genocidio.
Partita la segnalazione alla Polizia postale, e senza voler sottovalutare la vicenda, continuo come sempre il mio lavoro senza arretrare di un passo. A cominciare dal racconto dell’ultima vita spezzata dagli aguzzini del regime di Bashir, gli agenti del Niss.
Ahmed al-Khair Awad al-Karim, era stato arrestato il 1 febbraio dopo aver partecipato a una manifestazione pacifica a Gedaref. Nessuno sapeva dove fosse stato portato e di cosa fosse accusato. Dopo 48 ore di detenzione nelle mani dei servizi di sicurezza nella sede di Khashm al-Qurba, il fratello Saad lo ha rivisto all’obitorio. Sul suo corpo segni di torture: dalla testa alle spalle, dai reni alle gambe. Ma anche di una violenza ancora più infame per un credente musulmano, lo stupro.
Ahmed è l’ennesima vittima delle proteste in Sudan. Ormai sono oltre 50 i morti, ma il governo ne ammette solo la metà, e continuano gli arresti nonostante le autorità sudanesi avessero garantito il rilancio di tutti i dimostranti fermati dall’inizio delle dimostrazioni. L’ultima retata ha interessato la categoria degli avvocati. In 30, tra cui molti difensori dei diritti umani, sono stati arrestati nel sobborgo di Riyad, nella capitale Khartoum, il 31 gennaio durante un incontro per discutere su come suddividere il carico di lavoro per fornire assistenza legale ai manifestanti pacifici vittime di repressioni e abusi da parte del governo sudanese.
Sul fronte politico qualcosa, invece, sta cambiando. Le dichiarazioni del ministro della Difesa Awad Mohamed Ahmed Ibn Auf, secondo il quale i giovani coinvolti nelle proteste in Sudan hanno «ragionevoli ambizioni» e «la situazione di crisi nel Paese ha mostrato una spaccatura con gli anziani che richiede una comunicazione intergenerazionale e soluzioni eque ai problemi per soddisfare le aspettative delle nuove generazioni» evidenziano come gli equilibri governativi stiano subendo qualche scossone.
Per la prima volta un esponente autorevole del National congress party prende una posizione che si dissocia da quanto espresso finora dal presidente Bashir e riconosce che le proteste indichino «un necessario rimodellamento di entità politiche e partiti con una mentalità diversa rispetto a prima». Seppure le dichiarazioni siano giunte nel giorno in cui la polizia ha nuovamente disperso centinaia di manifestanti pacifici sia a Khartoum che a Omdurman, rappresentano un cambio di atteggiamento. Almeno a parole.
Le proteste hanno assunto con il passare del tempo i connotati di una sommossa contro il presidente, arrivato al potere con un golpe nel 1989. Bashir finora ha sempre respinto la richiesta di dimissioni, puntando il dito contro «i traditori e gli agenti stranieri» che complottano contro il Sudan. Va però evidenziato come nelle ultime ore il presidente si sia lasciato andare a dichiarazioni di apertura verso chi oggi lo contesta, dicendosi pronto a cambiare le leggi repressive che hanno portato all’abuso della violenza da parte delle forze di sicurezza. Come se l’ordine di sparare sulla folla non fosse partito da lui. Intanto ha ribadito la sua intenzione di ricandidarsi alle elezioni presidenziali previste il prossimo anno.
Ma l’Alleanza 2020, ombrello politico che racchiude alcuni partiti dell’opposizione sudanese che hanno partecipato al dialogo nazionale guidato dal governo, continua a sollecitare l’ex generale a fare un passo indietro. Con un documento inviato al presidente del Parlamento Ibrahim Ahmed Omer, la coalizione chiede di non modificare la Costituzione per consentire all’attuale presidente di correre per un terzo mandato e di mettere in pratica i risultati della Conferenza di dialogo nazionale, in particolare nei settori relativi alla lotta alla corruzione e alle libertà politiche.
A fronte dell’autorevolezza della richiesta le chances che Bashir si ritiri appaiono comunque limitate. Lo scorso agosto il Partito del Congresso nazionale ha modificato il proprio statuto permettendo a Bashir di essere eletto per la terza volta alla guida del partito, mossa interpretata come preludio alla modifica della Carta costituzionale. Nessuna sorpresa, dunque, quando a dicembre un gruppo di parlamentari sudanesi, in rappresentanza di 33 partiti, hanno presentato una proposta di legge ad hoc per modificare i dettami della Costituzione relativi all’elezione del presidente.