Con una quarantina di opere provenienti dal Von der Heydt Museum di Wuppertal la mostra Dall’espressionismo alla nuova oggettività (nelle sale di Palazzo del Governatore a Parma fino al 24 febbraio) traccia un percorso forse non esaustivo ma assai illuminante nella storia dell’avanguardia tedesca del primo Novecento. Varcato l’ingresso ci troviamo subito immersi nelle atmosfere incandescenti che caratterizzarono gli esordi dell’espressionismo. Siamo nel 1905 a Dresda quando (in parallelo con quel che accadeva in Francia con i Fauves) un drappello di giovani artisti, spavaldi e agguerriti, lanciavano il movimento Die Brücke (Il ponte). Forza interiore, espressività immediata, forme nuove. La nuova estetica sbandierata da Obrist, Bleyl, Heckel, Kirchner e Schmidt-Rottluff dava battaglia alla pittura accademica e polverosa della Germania di allora, fin dal primo manifesto inciso in caratteri moderni e taglienti, che avrebbe attratto poi anche Nolde, Pechstein e Mueller. Poco oltre la mostra apre una finestra sull’avventura del Cavaliere azzurro (Der Blaue Reiter) di Kandinskij e Marc, punteggiata da paesaggi incantati e xilografie in bianco e nero che emulano i vertiginosi montaggi del nuovo cinema muto; su un versante più fiabesco, di realismo magico, ma anche più aperto a sperimentare con forme astratte siamo ancora dentro un vitale percorso di ricerca. Ma di lì a poco, nella seconda parte del percorso, ci imbattiamo nel muro invalicabile della Nuova oggettività. Un violento ritorno all’ordine segnò il primo dopoguerra insieme al funzionalismo e al razionalismo del Bauhaus. Dai colori accesi, dalle visioni oniriche e vitalistiche di Wilhelm Morger, Alexej von Jawlensky e del primo Nolde passiamo d’un tratto alle architetture metafisiche di Carl Grossberg, alle piatte e magrittiane figure di Gerd Arntz: il salto è abissale. Così il curatore Lorand Hegyi riesce a fare vedere l’invisibile, mettendo lo spettatore di fronte a quell’immane tragedia che fu la prima guerra mondiale che oltre a 16 milioni di morti e infinite schiere di mutilati portò una angosciante desertificazione interiore. Questa mostra accende i riflettori su un fatto doloroso: la fantasia interna degli artisti sopravvissuti appare distrutta. Una visione schizoide si impone senza via d’uscita. Dal dionisiaco nietzschiano che connotava le opere di Die Brücke siamo passati alla razionalità produttivistica della Neue Sachlichkeit. La furia iconoclasta si esaurì nel piatto realismo di Davrighausen, nei paesaggi pittoreschi di Hofer, nell’arcaismo di Adler che si ritrae con la fissità di una icona bizantina in un cupo autoritratto del 1924. Razionalità lucida, primitivismo germanico, esaltazione della tecnica e spiritualismo: si delinea un’estetica che il nazismo riconoscerà come propria. Di retrospettive sull’espressionismo tedesco ne abbiamo viste molte negli ultimi anni e anche di recente abbiamo raccontato una interessante mostra vista a Londra (vedi Le ombre della Repubblica di Weimar in Left del 21 settembre 2018). Ma questa piccola collettiva ha il merito di mettere efficacemente in luce l’evoluzione ma anche l’involuzione a cui andò incontro l’espressionismo precipitando nella Nuova oggettività. Portando allo scoperto i segnali di crisi che percorrevano sotterraneamente già il primo Die Brücke a causa delle contraddizioni irrisolte di alcuni artisti che ne furono gli animatori. Non a caso il movimento si sciolse nel 1913 alla vigilia della guerra. Molti giovani pittori, come i loro coetanei, finirono al fronte. Wilhelm Morgner fu ucciso nel 1917. E con lui tanti altri. Colpisce che alcuni di loro fossero andati in guerra come volontari. Fra questi anche il co-fondatore del Blue Reiter, Franz Marc. Affascinato dai futuristi aveva atteso la guerra come «apocalisse rigeneratrice». Solo da ultimo arrivò a scrivere che «l’amore per il germanesimo deve lasciare spazio oggi per il buon europeismo... Non bisogna rialzare le frontiere, ma abbatterle». Ma per lui era troppo tardi. Nel 1916 fu ucciso da due schegge di granata nei pressi di Verdun.   [caption id="attachment_136611" align="aligncenter" width="300"] Kandinsky[/caption]

Con una quarantina di opere provenienti dal Von der Heydt Museum di Wuppertal la mostra Dall’espressionismo alla nuova oggettività (nelle sale di Palazzo del Governatore a Parma fino al 24 febbraio) traccia un percorso forse non esaustivo ma assai illuminante nella storia dell’avanguardia tedesca del primo Novecento. Varcato l’ingresso ci troviamo subito immersi nelle atmosfere incandescenti che caratterizzarono gli esordi dell’espressionismo. Siamo nel 1905 a Dresda quando (in parallelo con quel che accadeva in Francia con i Fauves) un drappello di giovani artisti, spavaldi e agguerriti, lanciavano il movimento Die Brücke (Il ponte). Forza interiore, espressività immediata, forme nuove. La nuova estetica sbandierata da Obrist, Bleyl, Heckel, Kirchner e Schmidt-Rottluff dava battaglia alla pittura accademica e polverosa della Germania di allora, fin dal primo manifesto inciso in caratteri moderni e taglienti, che avrebbe attratto poi anche Nolde, Pechstein e Mueller.

Poco oltre la mostra apre una finestra sull’avventura del Cavaliere azzurro (Der Blaue Reiter) di Kandinskij e Marc, punteggiata da paesaggi incantati e xilografie in bianco e nero che emulano i vertiginosi montaggi del nuovo cinema muto; su un versante più fiabesco, di realismo magico, ma anche più aperto a sperimentare con forme astratte siamo ancora dentro un vitale percorso di ricerca. Ma di lì a poco, nella seconda parte del percorso, ci imbattiamo nel muro invalicabile della Nuova oggettività. Un violento ritorno all’ordine segnò il primo dopoguerra insieme al funzionalismo e al razionalismo del Bauhaus. Dai colori accesi, dalle visioni oniriche e vitalistiche di Wilhelm Morger, Alexej von Jawlensky e del primo Nolde passiamo d’un tratto alle architetture metafisiche di Carl Grossberg, alle piatte e magrittiane figure di Gerd Arntz: il salto è abissale. Così il curatore Lorand Hegyi riesce a fare vedere l’invisibile, mettendo lo spettatore di fronte a quell’immane tragedia che fu la prima guerra mondiale che oltre a 16 milioni di morti e infinite schiere di mutilati portò una angosciante desertificazione interiore. Questa mostra accende i riflettori su un fatto doloroso: la fantasia interna degli artisti sopravvissuti appare distrutta. Una visione schizoide si impone senza via d’uscita.

Dal dionisiaco nietzschiano che connotava le opere di Die Brücke siamo passati alla razionalità produttivistica della Neue Sachlichkeit. La furia iconoclasta si esaurì nel piatto realismo di Davrighausen, nei paesaggi pittoreschi di Hofer, nell’arcaismo di Adler che si ritrae con la fissità di una icona bizantina in un cupo autoritratto del 1924. Razionalità lucida, primitivismo germanico, esaltazione della tecnica e spiritualismo: si delinea un’estetica che il nazismo riconoscerà come propria.

Di retrospettive sull’espressionismo tedesco ne abbiamo viste molte negli ultimi anni e anche di recente abbiamo raccontato una interessante mostra vista a Londra (vedi Le ombre della Repubblica di Weimar in Left del 21 settembre 2018). Ma questa piccola collettiva ha il merito di mettere efficacemente in luce l’evoluzione ma anche l’involuzione a cui andò incontro l’espressionismo precipitando nella Nuova oggettività. Portando allo scoperto i segnali di crisi che percorrevano sotterraneamente già il primo Die Brücke a causa delle contraddizioni irrisolte di alcuni artisti che ne furono gli animatori. Non a caso il movimento si sciolse nel 1913 alla vigilia della guerra. Molti giovani pittori, come i loro coetanei, finirono al fronte.

Wilhelm Morgner fu ucciso nel 1917. E con lui tanti altri. Colpisce che alcuni di loro fossero andati in guerra come volontari. Fra questi anche il co-fondatore del Blue Reiter, Franz Marc.

Affascinato dai futuristi aveva atteso la guerra come «apocalisse rigeneratrice». Solo da ultimo arrivò a scrivere che «l’amore per il germanesimo deve lasciare spazio oggi per il buon europeismo… Non bisogna rialzare le frontiere, ma abbatterle». Ma per lui era troppo tardi. Nel 1916 fu ucciso da due schegge di granata nei pressi di Verdun.

 

Kandinsky