«Una partita truccata, con carte segnate. Una partita giocata sulle spalle di una famiglia: qui c’è in gioco la credibilità di un intero sistema». Ricordiamoci di queste parole. Le ha pronunciate il pm Giovanni Musarò, in apertura di udienza del processo bis sulla morte di Stefano Cucchi che vede imputati cinque carabinieri. Perché la vicenda Cucchi, così come la dipana il processo e la parallela indagine sui depistaggi, è la storia di un violentissimo pestaggio e di una strategia scientificamente orchestrata per allontanare i sospetti dai carabinieri che lo arrestarono, e che ebbe un braccio “militare” ma anche uno politico. Ora le indagini e il processo stanno spiegando con una precisione sempre maggiore le attività del braccio militare. Però, prima di entrare nel merito dell’udienza di oggi 27 febbraio vale la pena ricordare le parole con cui il governo di allora contribuì – magari anche solo per un malinteso senso dello Stato – a dare copertura a chi segnava le carte e truccava la partita. «Di una cosa sono certo: del comportamento assolutamente corretto da parte dei carabinieri in questa occasione», ebbe a dire una settimana dopo la morte di Stefano il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, all’epoca di Alleanza nazionale, oggi vicepresidente per Fdi del Senato.
Alfano indotto a riferire il falso
Probabilmente l’attività di depistaggio potrebbe essere iniziata già la mattina dopo l’arresto nel momento in cui i carabinieri hanno provato ad appioppare alla penitenziaria un detenuto ciancicato parecchio nelle operazioni seguite all’arresto e poi imboscato in fondo a un reparto di medicina penitenziaria dove morirà sei giorni dopo, alle 6.45 del 22 ottobre del 2009, senza poter parlare con nessuno, né l’avvocato né i genitori che ogni mattina bussavano alla porta del Pertini. Il 26 ottobre Patrizio Gonnella di Antigone e Luigi Manconi denunciarono pubblicamente che Stefano Cucchi al momento dell’arresto stava bene e che non aveva segni sul volto, visti poi dal padre il giorno dopo nel processo per direttissima. A partire da quella denuncia «iniziano a pullulare richieste di annotazioni su ordine della scala gerarchica dell’Arma, comprese quelle false e quelle dettate. Cosa successe quel giorno?», ha detto in aula Musarò. «Il lancio di agenzia delle 15.38 scatena un putiferio. Dal Comando generale dell’Arma partono richieste urgentissime di chiarimenti. E tutte queste annotazioni non servivano al pm ma all’allora ministro della Giustizia Angelino Alfano che avrebbe dovuto rispondere al question time alla Camera». Il pm aggiunge che «il ministro, per paradosso, si limitò a riferire il falso su atti falsi». Insomma, secondo l’accusa, fu inconsapevolmente indotto con atti falsi a riferire il falso. Una scheda riepilogativa redatta da tre carabinieri della stazione Appia sull’arresto di Cucchi fu l’unico documento che l’allora capo di Gabinetto del ministero della Difesa inviò il 2 novembre del 2009 all’omologo del ministero della Giustizia in vista del question time che il ministro Angelino Alfano doveva svolgere sul caso il 3 novembre in Parlamento. È quanto emerge dalle carte depositate dalla Procura di Roma nel processo che vede imputati cinque carabinieri. Nel documento i rappresentanti dell’Arma scrivono «che sia la fase dell’intervento e del fermo» di Cucchi, «sia la successiva operazione di redazione degli atti e di perquisizione, si sono svolte senza concitazione, nè particolari contatti fisici, in quanto il fermato, in condizioni fisiche particolarmente debilitate a causa di importanti patologie pregresse, si è dimostrato da subito remissivo e orientato a giustificare la propria posizione giudiziaria piuttosto che contestarla». Nella relazione, inviata al dicastero, si afferma inoltre che «il carabiniere scelto Gianluca Colicchio, alle 3.55 della notte del 16 ottobre, quando Cucchi si trovava nella stazione dei carabinieri di Tor Sapienza, si intratteneva a dialogare con l’arrestato facendosi raccontare la vicenda e trovandolo lucido, cosciente e in condizioni di salute compatibili con lo stato di detenzione (no ferite, non contusioni o ecchimosi diverse da quelle tipiche della tossicodipendenza in fase avanzata)».
L’autopsia scritta prima che i periti fossero nominati
«In atti interni dell’Arma dei carabinieri che risalgono al periodo compreso tra l’ottobre e l’inizio novembre del 2009 compaiono già le conclusioni a cui sarebbero giunti i medici legali nominati dalla Procura sei mesi dopo» e che indicavano come «responsabili del decesso solo i medici», ha rivelato sempre Musarò illustrando i nuovi documenti depositati. Una circostanza che il magistrato stesso definisce «inquietante». «Già in quegli atti si affermava che non c’era un nesso di causalità tra le botte e la morte di Cucchi, che una delle fratture era risalente nel tempo e che i responsabili del decesso erano solo i medici. Tutto ciò era stato scritto non solo quando i consulenti erano ben lontani dal concludere il loro lavoro ma quando la procura doveva ancora nominarli. Ciò lascia sconcertati». E sulle annotazioni dello stato di salute di Cucchi si susseguirono «circostanze false che ritroveremo anni dopo nelle relazioni peritali del gip e della prima corte d’assise».
«Alfano nel corso del question time disse, tra l’altro, che Cucchi era stato collaborativo al momento dell’arresto, omettendo ogni passaggio presso la compagnia Casilina e che era già in condizioni fisiche debilitate quando venne fermato. Da qui parte una difesa a spada tratta dell’Arma e si traduce in una implicita accusa nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria che avevano preso Cucchi in custodia per il processo». Musarò fa presente che in quel momento «il fascicolo dei pm Barba e Loy era contro ignoti ma per un gioco del destino il 3 novembre del 2009, quando Alfano ha finito di rispondere all’interrogazione, nel pomeriggio compare davanti ai magistrati il detenuto gambiano Samura Yaya che riferisce di aver sentito nelle camere di sicurezza del tribunale una caduta di Cucchi. Dichiarazione che è stata ritenuta inattendibile con sentenza definitiva».
L’anoressia inesitente
«Ho risentito l’audio del processo per direttissima: Stefano Cucchi disse di avere l’anemia e l’epilessia. I carabinieri, nelle loro annotazioni a verbale, parlano invece di anoressia, dato non vero, che poi diventa sindrome da inanizione nel processo, cioè causa della morte». Il magistrato ha aggiunto inoltre che il comando provinciale dell’Arma nel 2016 ha scritto in un altro verbale che Cucchi a Tor Sapienza ebbe un attacco epilettico in due diverse occasioni. «Non è vero perché il maresciallo Colicchio in servizio in quella caserma ce lo ha negato».
Parla Tomasone ma non ricorda
«Chiesi a tutti coloro che avevano avuto a che fare con la vicenda Cucchi di fare relazioni e di venire al comando da me per dire quello che avevano fatto, dal momento dell’arresto e fino alla consegna alla polizia penitenziaria: il motivo della riunione era anche quello di cogliere dal loro viso la reazione a quanto avevano scritto». Così il generale Vittorio Tomasone, ex comandante provinciale dei carabinieri di Roma, sentito come teste. «Seppi della morte di Cucchi dalle agenzie di stampa e da giornalisti che mi chiamarono», ha detto Tomasone. Da quella riunione emerse che «le condizioni fisiche generali di Cucchi non erano ottimali. Un carabiniere che lo ebbe in custodia la notte dell’arresto disse che aveva avuto dolori e aveva chiesto l’intervento del 118. Proprio per questo decisi di ascoltare per scrupolo la telefonata con la quale fu chiesta l’ambulanza. Era un elemento importante». E poi, una seconda riunione tra ufficiali dell’Arma, il 15 novembre 2009, «con a tema aspetti organizzativi e due episodi: la vicenda Cucchi e la vicenda che riguardò l’ex presidente della Regione, Marrazzo. Riunioni come queste ci sono sempre state». L’arresto di Cucchi, per il generale Tomasone «era normale, come tanti altri». E quella nota al Comando generale con i dati parziali dell’autopsia che ancora non era stata terminata? Il generale replica di non ricordare come fosse stata assunta quell’informazione. Il Pm ha fatto emergere che il 23 novembre fu disposta l’autopsia, il successivo 6 dicembre il medico incaricato auspicava la nomina di altri specialisti, «ma il primo novembre il generale Tomasone, in un atto indirizzato al Comando generale, scrive dei risultati “parziali” dell’autopsia che ancora non era stata fatta». «Sul modo con il quale è stata assunta l’informazione non ricordo. Non ho memoria».
L’ultimo dei testi di oggi 27 febbraio è Nicola Minichini, uno degli agenti della Polizia Penitenziaria imputati nel primo processo per la morte del geometra 31enne e poi assolti per non aver commesso il fatto. «Io mi sono trovato da innocente in una cupola, in una rete senza via di uscita che è stata architettata nei nostri confronti. Ad un mio collega, abbiamo tolto la pistola dalle mani, stava per compiere un gesto insano», ha raccontato in aula in Corte di Assise. Ascoltato per la prima volta in aula al processo bis, ha ricordato il vero e proprio incubo vissuto per dieci anni. «Per noi ha significato sprofondare nell’inferno più totale, non lo auguro a nessuno. Per settimane non sono potuto rientrare a casa perché avevamo i giornalisti sotto casa, a caccia di mostri. Sono stato rincorso da persone che guardando erroneamente le foto dell’autopsia mi chiedevano: come avete fatto a tagliarlo dalla gola allo stomaco?». «Vidi Stefano Cucchi che camminava da solo ma a fatica, aveva dei lividi sul volto. Si sedeva a fatica e su un fianco. Rifiutò di spogliarsi davanti al medico e chiese una pillola perché aveva mal di testa, alla schiena e al fianco. “Come ti sei fatto questi segni?” gli chiese il medico. E lui: “Sono caduto ieri sera dalle scale”». Il 22 ottobre quando si apprese della morte di Cucchi al reparto detentivo del Pertini, Minichini venne sentito dal pm Barba e il 14 novembre viene indagato: «Sul documento c’era scritto: “con calci e pugni dopo averlo fatto cadere in terra ne cagionavano la morte”. Da quel momento la mia vita e quella della mia famiglia è cambiata per sempre».
Chi disse a Casarsa che non ci furono percosse?
Nel filone di indagine sui depistaggi c’è anche un tenente colonnello indagato per falso, Alessandro Casarsa, all’epoca dei fatti a capo del Gruppo Roma dell’Arma: «Non sapevo che fossero state redatte due versioni delle stesse annotazioni sullo stato di salute di Cucchi. Il tenente colonnello Cavallo si rapportava direttamente a me ed eseguiva le mie disposizioni, ma sicuramente non ebbe da me la disposizione di modificare le annotazioni». Casarsa dice questo ai pm nell’interrogatorio svolto il 28 gennaio scorso. Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti il il 30 ottobre del 2009 il colonnello firmò una nota, poi recepita il 1 novembre 2009 dall’allora comandante provinciale di Roma, Vittorio Tomasone, nella quale, tra le altre cose, anticipava che la Procura di Roma avrebbe nominato il 2 novembre come periti un collegio di medici patologi per effettuare esami specifici sul corpo di Cucchi. In quel documento Casarsa afferma, inoltre, che i risultati parziali dell’autopsia «sembrerebbero non attribuire le cause del decesso a traumi, non essendo state rilevate emorragie interne né segni macroscopici di percosse». Sul punto, rispondendo alle domande del procuratore Giuseppe Pignatone e del sostituto Giovanni Musarò, Casarsa afferma di non essere in grado di dire da chi ebbe «le informazioni che sono riportate nella nota che mi esibite e che attengono ai preliminari accertamenti di natura medico-legale eseguiti sul cadavere di Stefano Cucchi. Prendo atto che Cavallo ha dichiarato che questa nota l’aveva scritta lui su mia dettatura, io escludo tale circostanza».
Ancora sul giallo delle annotazioni falsificate
Tra le carte depositate oggi dalla Procura c’è anche il verbale di interrogatorio di Lorenzo Sabatino, indagato per favoreggiamento, e all’epoca dei fatti comandante del reparto operativo di via In Selci. «Mi chiedete – fa mettere a verbale – per quale ragione nella nota del 14 novembre del 2015 indicammo le annotazioni sullo stato di salute di Cucchi a firma Colicchio e Di Sano fra gli allegati senza precisare che avevano contenuto diverso. In quel periodo io ero molto impegnato e mi limitai a fare un controllo sommario, fidandomi del capitano Testarmata (altro ufficiale indagato ndr), nel senso che pensai avesse evidenziato la circostanza nell’annotazione a sua firma. Intendo aggiungere che, per quello che è il mio ricordo, che il 17 novembre del 2015 ci recammo in Procura per consegnare la documentazione acquisita, io e il generale Luongo dicemmo che c’erano due annotazioni con la stessa data, ma diverse, ma evidentemente non ci spiegammo bene. Non parlammo di falso perché a me nessuno aveva parlato di falso», conclude Sabatino.