Le legittime istanze federaliste di alcune Regioni del Nord sono in realtà un bluff. La pretesa di maggiore libertà nella spesa pubblica nasconde infatti la volontà di trattenere gran parte del gettito fiscale prodotto sul proprio territorio. Un’operazione inammissibile, ecco perché

La vicenda relativa alla richiesta di tre Regioni (il Veneto, la Lombardia e l’Emilia-Romagna) del riconoscimento di una maggiore autonomia in alcuni settori di spesa, sembra ad un punto di stallo. L’esame delle bozze di intesa tra il governo e le tre Regioni interessate, programmato per il Consiglio dei ministri del 15 febbraio, è stato rinviato. Sembra se ne riparlerà a fine marzo. Si spera che questa pausa possa consentire di fare uscire l’intera vicenda dalla totale opacità in cui è stata volutamente mantenuta, aprendo un reale e documentato confronto a livello tecnico e politico.
È una storia nata male. Ha cominciato a bleffare la Regione Veneto, quando, nel 2014, ha approvato una legge per indire un referendum popolare che poneva quesiti come: «Vuoi che una percentuale non inferiore all’ottanta per cento dei tributi pagati annualmente dai cittadini veneti all’amministrazione centrale venga utilizzata nel territorio regionale in termini di beni e servizi?». Si trattava di quesiti non ammissibili nel nostro ordinamento costituzionale, tant’è che la Corte li ha tempestivamente spazzati via. Con essi la Lega riprendeva una propria vecchia rivendicazione, trattenere nel Nord del Paese una maggior quota delle risorse prelevate nel territorio con le imposte (Irpef, Iva ecc.) che attualmente, tramite il bilancio dello Stato, vanno a finanziare la spesa in altre zone del Paese, in particolare al Sud. Il termine tecnico è quello di “residuo fiscale”, che misura la differenza tra le imposte che ciascun territorio paga e le risorse che vi fanno ritorno tramite servizi pubblici.
I meccanismi di redistribuzione impliciti nel bilancio di uno Stato unitario, che eroga servizi tendenzialmente uniformi in un Paese che è caratterizzato da forti differenziali di reddito tra le diverse aree, e quindi da forti differenze nelle capacità di finanziare i servizi pubblici, comporta necessariamente che nelle zone a più alto reddito si paghino più imposte dei servizi che si ricevono, e viceversa in quelle più povere. È l’esito delle politiche redistributive che ogni Stato, dal primo affermarsi dei principi di cittadinanza e di eguaglianza, pone in essere con la propria attività di spesa e di prelievo, in misura più o meno grande a seconda delle fasi storiche e delle tradizioni politiche dei singoli Paesi. Ma si tratta, si badi bene, di una redistribuzione…

L’articolo di Ernesto Longobardi prosegue su Left in edicola dall’1 marzo 2019


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