Al via la presentazione delle domande per la card. Ecco cosa c'è dietro il pachidermico processo di governance dei poveri e in sintesi, il significato della misura voluta dal M5s. Ben diversa da un reddito di base

Con il decreto legge n. 4, del 28 gennaio 2019 è stata introdotta una misura nazionale di contrasto alla povertà e di politica attiva del lavoro che va sotto l’equivoco termine di Reddito di cittadinanza.
Equivoco perché con la formula “reddito di cittadinanza” o “reddito di base, universale e incondizionato”, si intende l’erogazione di una prestazione monetaria per tutta la cittadinanza di un determinato Paese, perciò universale; e senza alcuna condizione esistenziale ed economica da dover dimostrare, né procedura comportamentale o lavorativa da dover seguire, perciò incondizionato, senza alcuna condizione.
Difficile immaginare questa prospettiva universalistica e incondizionata per l’Italia, ora anche in recessione da un paio di trimestri e con il sistema di welfare tra i meno inclusivi d’Europa, dove la prima, concreta, misura nazionale di lotta alla povertà e all’esclusione sociale è stata introdotta solamente nel 2017, per diventare operativa all’inizio dello scorso anno, sotto il nome di Reddito di inclusione (Rei): una carta prepagata che si inseriva nel solco evolutivo delle già previste, seppure molto meno finanziate, carta acquisti Social card (attivata nel 2008 dal ministro Tremonti, nel governo Berlusconi IV) e Carta prepagata Sia, Sussidio di inclusione attiva (Legge di stabilità 2016, governo Renzi).
Nell’attuale caso italiano siamo di nuovo dinanzi ad una carta prepagata, una Postepay, che il testo del decreto in questione ribattezza Carta Rdc (acronimo di Reddito di cittadinanza), facendo esplicito riferimento alla già ricordata carta acquisti del 2008 (art. 5, comma 6 del Decreto, scusate la pedanteria!). D’altra parte, il successivo articolo 11 modifica il precedente decreto legislativo 147/2017 che introduceva il Rei, dal quale ha preso e dirottato una parte dei finanziamenti, visto che altrimenti il RdC non avrebbe avuto le coperture sufficienti.
Così la “manovra del popolo”, portata avanti dal “governo del cambiamento”, ripete l’eterno ritorno nella tautologica continuità normativa, di mimetico (e “memetico”, al tempo della diretta permanente sui social network) spostamento di strumenti e istituti: una sorta di gioco dell’oca post-moderno, se volessimo ancora sorridere, per non piangere.
D’altra parte è inevitabile riconoscere che dinanzi al nostro vecchio sistema di tutele e garanzie sociali così altamente impoverito, selettivo, frammentato ed escludente, la previsione di sette miliardi di euro stanziati per il 2019 rappresenta una radicale inversione di marcia, soprattutto per un sostegno al reddito che arriverà fino ad un importo massimo di 500 euro mensili (per la figura classica del single), cui si può aggiungere il contributo per l’affitto, fino ad un massimo di 280 euro mensili. Si tratta di finanziamenti triplicati rispetto alla precedente misura del Rei. Come è stato giustamente osservato da un primo commento del Consiglio direttivo del Basic income network – Italia, associazione che da anni si batte per l’introduzione di un reddito di base, «l’allargamento della platea dei beneficiari comincia a delineare un intervento di redistribuzione del reddito che potrà raggiungere strati della popolazione impoveriti della crisi, intrappolati nella precarietà lavorativa ed esistenziale di questi anni, e offrire loro un prima alternativa tangibile».
Perché questo è il tema. Siamo dinanzi a un progressivo impoverimento di un’ampia parte della società italiana, sempre più insicura, precaria, impaurita, imprigionata in una pericolosa, strutturale, condizione di lavoro povero, informale, semi-gratuito, quasi neo-servile, pagato una miseria, soprattutto in alcune zone del centro-meridione, dove il lavoro “tradizionale” si fa fatica solo ad immaginarlo. A fronte di questa che appare oramai come una endemica situazione di depressione economica, sociale, esistenziale, il legislatore avvia un pachidermico processo burocratico di “mobilitazione” delle persone in povertà, di governance dei poveri verrebbe da dire, con l’obbligo di sottoscrizione da parte del titolare della misura di Rdc di due patti (art. 4 del decreto). Un patto per il lavoro rivolto a chi si ritiene sia ancora nelle condizioni di poter stare nel “mercato del lavoro”, con l’obiettivo ultimo di prevedere incentivi per l’imprenditore che assumerà il percettore del Rdc nei 18 mesi di durata del sussidio (art. 8). Quindi un patto di inclusione sociale, ripreso dal decreto sul Rei, per quelle persone ritenute particolarmente vulnerabili e bisognose di integrazione sociale, ancor prima che lavorativa. Il tutto aderendo a piattaforme digitali necessarie per l’attivazione e la gestione dei patti (art. 6). Con a fianco la guida e l’orientamento, tra la selva di uffici e amministrazioni, di uno tra i 10mila navigator prossimamente assunti dai centri per l’impiego, stando alle dichiarazioni di Domenico Parisi, nuovo Presidente Anpal (Agenzia nazionale politiche attive lavoro), autodefinitosi «primo navigator», alla luce della sua brillante sperimentazione digitale in Mississippi. Impegnando l’intera famiglia del beneficiario in una serie di comportamenti e azioni, pena incorrere nella miriade di sanzioni che l’articolo 7 del decreto elenca in tutta la sua severa, punitiva, disciplinare visione di “un povero” da governare con tutta la sua famiglia, appunto.
Lo spirito della norma sembra essere quello di recuperare il lato più burocratico e coercitivo di un welfare che diventa welfare to work – con anche la previsione di otto ore lavorative settimanali in favore degli enti locali, in una sorta di lavori socialmente utili 2.0? – e quindi vero e proprio workfare, con l’assunzione dei percettori di reddito che diventa un esonero contributivo in favore dei datori di lavoro. Qualora l’opposizione politica, culturale e sociale a questo governo esistesse davvero, dovrebbe approfittare della fase parlamentare di conversione del decreto in legge per fare in modo tale che questa misura possa diventare quanto di più simile ad un reddito minimo garantito e adeguato, inteso come diritto sociale individuale, accompagnato da una serie di misure che favoriscano l’investimento sul potenziamento dell’autodeterminazione personale (istruzione, mobilità, salute, politiche abitative, maternità/paternità, etc.), in un quadro di solidarietà sociale e di rapporto fiduciario tra individuo e istituzioni pubbliche, tanto più dentro le accelerate trasformazioni dei sistemi di produzione e dell’innovazione tecnologica. Ma chi lo farà?

(da Left n.6 dell’8 febbraio 2019)

Giuseppe Allegri è l’autore del libro Il reddito di base nell’era digitale, Fefe editore, 2019