Dopo l’articolo dello storico dell’arte Fulvio Cervini continua la discussione sui danni provocati dalla riforma Franceschini: soprintendenze smembrate, archivi e laboratori nel caos, personale svilito. Mentre “super direttori” gestiscono poli museali come fossero aziende, per fare profitto, privandoli del loro ruolo formativo

Dopo le varie trasformazioni che il ministero ha vissuto e che hanno investito aspetti normativi e organizzativi, è con la “riforma” dell’ex ministro Dario Franceschini che il cambiamento nella cura dei Beni culturali diventa radicale. Egli interviene con la decisa volontà di separare le competenze in precedenza svolte dalle Soprintendenze negli ambiti della tutela e della valorizzazione. La logica viene totalmente ribaltata con l’obiettivo di lasciare alle Soprintendenze il solo compito della tutela (non è poi del tutto così), accorpando in esse tutte le discipline (Archeologia, Belle arti e Paesaggio) e alle altre istituzioni, Poli museali e Istituti autonomi, la gestione di musei e parchi archeologici, con il compito preminente della valorizzazione (con eccezioni che contemplano tutela e valorizzazione).

Tale nuova organizzazione è stata attuata rapidamente e drasticamente, in due fasi, tra luglio 2014 e gennaio 2016, senza che per molte realtà venisse fatta anche una banale valutazione di sostenibilità, determinando una gerarchia per gli istituti autonomi, con la conseguente assegnazione di un direttore di livello generale e non generale. Non sono stati affrontati aspetti logistici, sono state previste dotazioni organiche solo sulla carta e, a tutt’oggi, la nuova organizzazione non è stata portata a compimento, lasciando condizioni di caos per archivi, servizi centralizzati, laboratori che in precedenza erano funzionali all’intero apparato delle Soprintendenze, oggi rimasti casualmente e integralmente (per fortuna!) dove erano collocati, ma nella competenza di uno solo degli istituti derivati dalla scomposizione delle Soprintendenze.

Queste riflessioni riguardano le competenze specialistiche, l’assetto culturale, la sostenibilità economica e organizzativa, con il fine di individuare possibili soluzioni per le maggiori criticità, di ordine culturale innanzitutto, e quindi logistico, con uno sguardo anche al mondo del lavoro che risulta gravemente danneggiato da tale nuovo assetto. L’urgenza si impone anche alla luce delle annunciate revisioni della riforma e del malessere crescente avvertito da coloro che operano all’interno e all’esterno, specialisti per i quali sembrano essere scomparsi diritti e dignità e mortificate le competenze disciplinari maturate in anni di studio e di esperienza sul campo, come è emerso animosamente nell’incontro pubblico (sul sistema delle Soprintendenze dopo la riforma Franceschini, tenutosi a Roma il 5 marzo, ndr) Peraltro in un silenzio imposto dal codice etico al quale il Ministero ha assegnato una accezione molto restrittiva.

Per il personale tecnico dell’Amministrazione non si intravede una opportunità di crescita professionale e di carriera, in una condizione di difformità irragionevole tra i funzionari che operano per la tutela e la gestione, le cui retribuzioni sono rimaste miserevoli, e direttori i cui compensi economici sono, in molti casi, equiparati a quelli dei direttori generali. Il personale di vigilanza è ridotto a numeri inadeguati per fare fronte alla situazione ordinaria e a quella straordinaria delle giornate gratuite, con la conseguenza, inaccettabile, del ricorso al volontariato, soluzione che si sta adottando in diversi musei.

La grande innovazione poi, tra le tante trasformazioni attuate, quella di cui più si è parlato e che ha letteralmente invaso le cronache, è stata la creazione di musei e parchi dotati di autonomia, affidati alla direzione di figure selezionate tra italiani e stranieri che avrebbero dovuto rappresentare l’eccellenza per la gestione di questi luoghi della cultura, per migliorarne la visibilità e incrementare la valorizzazione. Per realizzare questo in una forma clamorosa e che apparisse in totale rottura col passato, si è adottata una procedura di selezione affidata a commissioni con membri estranei all’amministrazione, quindi privi di conoscenza sulla gestione della tutela e del patrimonio, lasciando la scelta finale (su una terna di nomi) alla discrezionalità del ministro pro tempore o del Direttore generale che può essere anche una figura esterna, per nomina diretta del ministro. Senza offesa per alcuno dei direttori, credo si possa tranquillamente affermare che, in numerosi casi, non vi è un nesso chiaro tra gli stessi, i “super direttori”, e i luoghi che sono andati a dirigere.

Una delle principali osservazioni critiche mosse al sistema precedente era che i luoghi della cultura, musei, siti, complessi, fossero uffici all’interno delle Soprintendenze, ordinarie o speciali, e non vi è dubbio che un luogo aperto alla fruizione pubblica debba avere una propria identità e visibilità ed essere gestito da un direttore con un grado di autonomia rispetto alla struttura di appartenenza. Tale assetto, tuttavia, sarebbe stato facilmente risolvibile con una migliore organizzazione del lavoro all’interno delle istituzioni già esistenti, individuando le figure professionali più idonee, per formazione ed esperienza, tra i tecnici nei ruoli dell’amministrazione per la quale sono stati selezionati con concorsi pubblici. Questa forma di organizzazione avrebbe consentito, oltre un notevole risparmio economico, di non smembrare l’assetto culturale delle Soprintendenze, laboratori continui nella ricerca, nella tutela, nella diffusione della conoscenza, mantenendo così centralizzati gli uffici e i servizi amministrativi e tecnici. Si sarebbe assecondata anche la legittima aspettativa di crescita professionale da parte del personale tecnico al quale non è mai stato dato adeguato riconoscimento anche economico.

La separazione tra Soprintendenze, che si occupano della tutela, i musei confluiti nei Poli – nella maggior parte dei casi distanti culturalmente e spazialmente (sono 46 nella Regione Lazio) – e i musei autonomi, ha cancellato l’assetto culturale che si componeva di attività di tutela e ricerca sul territorio e di conservazione ed esposizione, nei musei “minori” e in quelli “maggiori”, di opere e collezioni di quel contesto territoriale. Questo smembramento ha dunque causato enormi disagi, e una moltiplicazione di incombenze burocratiche, da gestire senza il personale necessario, con effetti negativi negli ambienti di lavoro. Separazioni e accorpamenti hanno gettato nel caos l’amministrazione della tutela, senza più la possibilità di attuare il naturale processo di ricerca sul campo e immissione dei ritrovamenti nei laboratori di restauro, nei depositi e negli spazi espositivi. Caos per il quale non si prefigura alcuna soluzione. Risulta evidente che i problemi gestionali hanno preso il sopravvento rispetto all’ordinamento culturale e specialistico del quale si sarebbero dovute far crescere le potenzialità, indirizzando le attività e la formazione del personale tecnico.

Gli effetti di questa situazione sono insidiosi anche per il messaggio che passa al pubblico, tutto basato sui numeri e sulle imprese dei “super direttori”, con una ossessiva attenzione verso le situazioni che attraggono maggiori visitatori, mentre nella tavola rotonda del 5 marzo a Roma è stato sottolineato che, nonostante le apparenze, il patrimonio sembra essersi allontanato dai cittadini, tra musei che rischiano di essere luoghi di lusso e gratuità che non consentono una fruizione buona e consapevole, privando un certo numero di luoghi del ruolo sociale e formativo che ne è l’essenza. Il resto fa fatica a sopravvivere, se ne parla e se ne sa poco. Dove la sfida è più ardua, invece, l’impegno dovrebbe essere maggiore e allora non resta che cercare di risvegliare la consapevolezza verso una visione culturale più ampia, in grado di ristabilire una relazione corretta tra il patrimonio culturale e il modo di gestirlo.

L’incontro pubblico ha restituito, anche attraverso la passione dei molti interventi e della discussione, l’immagine di un Ministero disarticolato nella sua struttura, indebolito nelle funzioni principali, impoverito nelle competenze e nelle risorse. E assieme, è emerso il profondo disagio di quanti vi lavorano, sviliti – in particolare i precari – anche nella dignità professionale. È davvero questo che merita un patrimonio culturale con il quale vorremmo competere nel mondo globale?

* Rita Paris, archeologa, già direttore del Parco archeologico dell’Appia antica di Roma, è presidente dell’associazione Bianchi Bandinelli

 

L’articolo di Rita Paris è tratto da Left del 15 marzo 2019


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