“Mussolini e i ladri di regime”, il libro di Mauro Canali e Clemente Volpini getta una nuova luce sugli arricchimenti illeciti dei gerarchi. Altro che onestà, come vuole farci credere una certa vulgata, la corruzione era prassi quotidiana nella dittatura mussoliniana

Ultimo di una serie di politici italiani, il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani recentemente ha lodato Mussolini per avere fatto, fino all’entrata in guerra con Hitler, cose buone per l’Italia: strade, ponti, edifici, impianti sportivi, bonifiche. Non era un campione di democrazia, ha ammesso a chi gli ha ricordato l’assassinio di Matteotti e le leggi razziali, ma le infrastrutture sono importanti, e non bisogna essere faziosi.
Verrebbe da suggerirgli la lettura del libro di Mauro Canali e Clemente Volpini, Mussolini e i ladri di regime (Mondadori), uscito da poco, che racconta la storia degli arricchimenti illeciti dei gerarchi nel ventennio fascista. Lavoro documentatissimo, come ci racconta Mauro Canali, è fondato su relazioni del ministero delle Finanze e della Polizia giudiziaria svolte a partire dal 1943, per giungere alle vertenze con gli eredi, che si trascinano fino agli anni Sessanta. Fonti recentemente versate all’Archivio centrale dello Stato, e mai aperte prima, hanno consentito di ricostruire una pagina finora molto chiacchierata, ma poco conosciuta. Le vicissitudini dell’inchiesta sono convulse: dalla Commissione per gli illeciti arricchimenti istituita da Badoglio all’indomani del 25 luglio 1943, con la Repubblica Sociale si passa all’effimero tentativo di Mussolini di rilanciarla, ma depoliticizzandola. Sarà ripresa nell’aprile 1944, quando la clamorosa apertura di Togliatti a Badoglio consente la formazione di un nuovo governo, anch’esso di breve durata. Con il Cln finalmente l’inchiesta approda alla rottura netta con il passato, rientrando nel programma delle sanzioni contro il fascismo. Nel dopoguerra, con il mutare del clima politico, le inchieste sono derubricate a reati fiscali e passate al ministero delle Finanze, in vista di concordati che si risolveranno con il recupero del 10 per cento della cifra accertata.
Vizi privati e pubbliche virtù. La dittatura fascista, nata all’insegna dell’onestà per risanare la vita nazionale dallo scandalo dei «pescicani», dei corrotti e dei parassiti che avevano lucrato alle spalle di centinaia di migliaia di caduti in guerra, fin dall’inizio fu affetta da un’endemica e pervasiva corruzione. Il mito dell’Italia «proletaria e fascista» contro le «democrazie plutocratiche e reazionarie dell’occidente» si sgretola lacerandosi pagina dopo pagina, come un fondale di carta che mette a nudo quanto accade dietro le quinte. Il racconto si svolge avvincente intrecciando…

L’articolo di Noemi Ghetti prosegue su Left in edicola dal 22 marzo 2019


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