Dopo lo sciopero per il clima guidato dalla Thunberg, il 23 marzo tornano in piazza i movimenti contro le infrastrutture inutili e dannose. Nocive per l’ambiente e funzionali solo alla globalizzazione liberista. Ma c’è chi, pur dicendosi green, le difende. Mentre il Paese frana

Una volta all’anno succede che anche La Repubblica spari in prima pagina che occorre salvare il mondo dalla catastrofe climatica. D’altronde almeno a Natale bisogna andare a messa. Poi c’è Greta Thunberg che è diventata un fenomeno mediatico e il presidente Sergio Mattarella ha richiamato il dovere di impegnarsi. Intendiamoci: meglio così. Ci sono stati anni in cui l’ambiente e il clima stavano ai primi posti dell’agenda di politici e mass media. Poi è arrivata la crisi economica e poi sono arrivati i populisti. I migranti hanno sostituito l’effetto serra come se non fosse quest’ultimo a determinare i profughi climatici.

Ma ora Greta ha chiamato alla mobilitazione e le manifestazioni ci sono state in tutto il pianeta. Per altro lo ha fatto con un modo che rimanda a quello delle femministe di Non una di meno, e cioè ha chiesto lo sciopero. Certo, degli studenti, ma comunque sciopero. Il femminismo si è definito intersezionale, intendendo che il legame tra violenza subita e sciopero rimanda alla intersezione dei conflitti. In Spagna lo ha ben capito il sindacato che ha fatto grandi scioperi, mentre in Italia no. Lo sciopero per il clima degli studenti lo possiamo chiamare anch’esso intersezionale, uno sciopero per il futuro contro ciò che letteralmente te lo brucia. Potremmo dire la devastazione climatica e la precarietà.

D’altronde dopo l’empasse in cui sono cadute le politiche per il…

L’articolo di Roberto Musacchio prosegue su Left in edicola dal 22 marzo 2019


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