«Ho avuto paura, mi sono trovato in una morsa dalla quale non sarei potuto uscire. Per questo ho parlato dopo nove anni». Superteste e imputato, Francesco Tedesco, quasi coetaneo di Stefano Cucchi ha appena spiegato, oggi 8 aprile, al pm Giovanni Musarò perché non avesse raccontato prima del pestaggio di quel ragazzo arrestato. Il processo Cucchi-bis, proprio grazie alle sue dichiarazioni è entrato da cinque mesi in una fase che sembrsa determinante. L’udienza in corso nell’aula della Corte d’Assise, è iniziata con le sue scuse «alla famiglia Cucchi e agli agenti della polizia penitenziaria, imputati al primo processo. Per me questi anni sono stati un muro insormontabile».
«Avevo letto che Casamassima aveva cominciato a parlare – ha raccontato – e capii che quel muro stava cadendo». La lettura del gravissimo capo d’imputazione con il quale veniva contestato l’omicidio preterintenzionale «ha poi inciso molto, così come il pensare che ci potesse essere un nesso di causalità tra il pestaggio e la morte. Mi colpì che c’era scritto quello che avevo vissuto io, quello che avevo visto io. Non sono più riuscito a tenermi dentro questo peso».
Per un’ora e quaranta, Tedesco ha risposto alle domande della pubblica accusa e per altre quattro al controesame degli altri legali e tornerà in aula il 16 aprile.
La sua deposizione ha fornito lo spaccato dell’aria che tirava in quei giorni nella sua caserma e nell’Arma di Roma. Alla stazione c’era un maresciallo vicecomandante che voleva esibire quanti più arresti possibile (Mandolini, imputato, di calunnia e falso anche lui in questo processo, ndr), al comando generale si respirava l’imbarazzo per lo scandalo di altri carabinieri che avevano provato a ricattare l’allora governatore del Lazio, Marrazzo.
«In quel periodo tutto passava da Mandolini per la vicenda Cucchi. Lo fermai un giorno chiedendogli cosa avremmo dovuto fare nel caso ci avessero chiesto qualcosa, ma lui mi rispose “Tu non ti preoccupare, devi dire che stava bene. Tu devi seguire la linea dell’Arma se vuoi continuare a fare il carabiniere. Percepii quelle parole di Mandolini – ha aggiunto Tedesco – come una minaccia abbastanza seria. La prima delle due volte che sono stato sentito dal pm, poi, venni accompagnato da Mandolini il quale non mi minacciò esplicitamente, ma mi disse sempre di stare tranquillo e di dire che Cucchi stava bene. Io, però, non mi sentivo affatto tranquillo».
«Cercavo di trovare un contatto con qualcuno in tutti i modi. Per questo in udienza guardavo Ilaria che può aver visto il gesto come una provocazione. Ma in realtà mi sentivo solo contro il mondo», ha detto ancora il carabiniere imputato di omicidio preterintenzionale con altri due colleghi, Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo. «Dire che ebbi paura è poco. Ero letteralmente terrorizzato. Ero solo contro una sorta di muro. Sono andato nel panico quando mi sono reso conto che era stata fatta sparire la mia annotazione di servizio, un fatto che avevo denunciato. Ero solo, come se non ci fosse nulla da fare. In quei giorni io assistetti a una serie di chiamate di alcuni superiori, non so chi fossero, che parlavano con Mandolini. C’era un po’ di agitazione. Poi mi trattavano come se non esistessi. Questa cosa l’ho vissuta come una violenza».
Dopo il pestaggio Tedesco e Cucchi trovarono il verbale pronto, redatto da Mandolini in persona che gli chiese di firmarlo. Stefano non volle firmare. «Mentre stavamo in auto per rientrare alla caserma Appia, Cucchi era silenzioso, si era messo il cappuccio e non diceva una parola, chiedeva il rivotril». Era sotto choc. «Mentre uscivano dalla sala, Di Bernardo si voltò e colpì Cucchi con uno schiaffo violento in pieno volto. Poi lo spinse e D’Alessandro diede a Cucchi un forte calcio con la punta del piede all’altezza dell’ano. Nel frattempo io mi ero alzato e avevo detto: “Basta, finitela, che cazzo fate, non vi permettete!”. Ma Di Bernardo proseguì nell’azione spingendo con violenza Cucchi e provocandone una caduta in terra sul bacino, poi sbatté anche la testa. Io sentii il rumore della testa che batteva. Quindi D’Alessandro gli diede un calcio in faccia, a quel punto mi alzai e li allontanai da Cucchi». «Lo sentivo descrivere come è stato ucciso mio fratello – ha commentato Ilaria Cucchi – e il mio sguardo cercava quello dei miei genitori che ascoltavano raccontare come è stato ucciso il loro figlio. È stato devastante, ma a questo punto quanto accaduto a Stefano non si potrà mai più negare»
Non era facile denunciare i colleghi. «Il primo a cui ho raccontato quanto è successo è stato il mio avvocato. In dieci anni della mia vita non lo avevo ancora raccontato a nessuno», ha ripreso Tedesco. «Per me è la vittoria umana di una persona che per anni ha cercato di poter raccontare i fatti ma le pressioni subite glielo hanno impedito – dirà proprio quel legale, Eugenio Pini dopo l’esame del suo assistito – ora ci si deve ricordare e tenere ben presente che quando si parla del famoso muro di gomma, non solo questo bisogna riferirlo alle persone che dall’esterno hanno cercato di conoscere la verità ma anche a chi da dentro ha cercato di raccontarla. Tedesco è una persona che, avendo difeso Cucchi durante il mancato fotosegnalamento e il pestaggio, ha dimostrato di volere salvaguardare e preservare la vita umana».
«Dopo dieci anni di menzogne e depistaggi in quest’aula è entrata la verità raccontata dalla viva voce di chi era presente quel giorno – dice ancora Ilaria Cucchi – le dichiarazioni e le intenzioni espresse dal comandante generale dell’Arma (il generale Nistri ha annunciato che si costituirà parte civile in caso di condanna, ndr) ci fanno sentire finalmente meno soli, si è schierato ufficialmente dalla parte della verità. A differenza di quello che qualcuno dei difensori ogni udienza dà ad intendere, chi rappresenta l’Arma non sono i difensori degli imputati ma è il loro comandante generale, che ora si è schierato ufficialmente dalla parte della verità».
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