Colpa di una legislazione criminogena, e di tempi di reclusione in aumento. In barba alla Costituzione. Come spiega il rapporto di Associazione Antigone

«Nonostante l’impegno e le parole di gran parte degli operatori del diritto, nonostante il lavoro quotidiano umanocentrico e garantista di una moltitudine di poliziotti, educatori, assistenti sociali, magistrati, avvocati, esperti, studiosi, nonostante il susseguirsi di sentenze delle Corti che hanno posto limiti all’esercizio illimitato del potere di punire, nonostante i discorsi alti e densi provenienti da autorità morali indiscusse, enorme è il rischio di un declino che porti ad affermare che l’articolo 27 della Costituzione sia un orpello formale di cui liberarsi (…) È in questa lotta impari tra un’idea costituzionale e legale di pena e una proposta politica moralmente violenta nonché palesemente incostituzionale che si inserisce il rapporto di Antigone 2019», Il carcere secondo la Costituzione.

Le parole del presidente dell’associazione Antigone, Patrizio Gonnella, nell’editoriale del XV Rapporto sulle condizioni di detenzione nelle carceri italiane, premettono l’analisi di una tendenza che pone pressanti interrogativi. Perché, sebbene i numeri siano chiari, i conti non tornano. E cioè, si registra un continuo incremento del numero dei detenuti ma l’aumento non è imputabile all’incremento degli ingressi in carcere ed è, piuttosto, riscontrabile un allungamento delle pene scontate dai detenuti condannati in via definitiva nonostante non si registri un aumento della gravità dei reati commessi. Deducendone che le spiegazioni alla crescita della popolazione carceraria slegata dalla (non) impennata nell’andamento della criminalità sono da ricercarsi altrove.

Quasi certamente nell’intervento spasmodico e compulsivo del legislatore sul codice penale – prova ne siano la nuova legge sulla legittima difesa o i vari aumenti di pena per rapina e furto in appartamento – motivando le modifiche come necessarie a contrastare presunti fenomeni criminali predatori in vertiginoso aumento. Tutt’altro: il decremento dei reati si è registrato nei primi nove mesi del 2018, seguendo un trend cominciato nel 2017, con cinquantatré delitti in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, con il 9 per cento in meno di rapine e il 15 per cento di quelle in appartamento, confermandosi, anche, nei primi mesi del 2019.

E proprio quando cresceva la retorica d’odio verso le popolazioni rom, tra il 2016 e il 2017, il numero delle segnalazioni riferite a persone denunciate per il reato di impiego di minori nell’accattonaggio scendeva da centoventicinque a ottantotto così come quello delle segnalazioni di persone denunciate o arrestate per il reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio italiano: da 46.669 a 33.596, nonostante la questione della perniciosità dell’immigrazione fosse al centro del dibattito pubblico e faceva la fortuna elettorale dei più. E nonostante molti stranieri, di punto in bianco, abbiano perso certezze anagrafiche e titolo di permanenza nel nostro Paese a causa del decreto Salvini e nonostante le discriminazioni nell’accesso alle misure alternative non detentive e a quelle cautelari, il numero di stranieri reclusi è rimasto stabile. Anzi, a onor del vero, negli ultimi dodici mesi, è diminuito dello 0,42 per cento. Piuttosto, nei confronti degli stranieri, è facile riscontrare discriminazioni nelle offerte di trattamento: una su tutte, nel contatto con gli affetti personali, condizionato da negligenze dei consolati e delle rappresentanze diplomatiche o da problemi tecnici nella corrispondenza telefonica.

A fermare la crescita del numero dei detenuti non è nemmeno l’applicazione delle misure alternative, sebbene siano in continua espansione: sia perché vengono inflitte direttamente dal regime di libertà, senza il passaggio dal carcere, sia perché la loro applicazione è distribuita in maniera iniqua nei territori, ciò non svalutandone la loro efficacia nel reinserimento sociale e la loro utilità relativamente al risparmio sui costi. Che, in carcere, diminuiscono per detenuto, scendendo da 137 euro nel 2018 a 131 nel 2019, mentre aumenta, di diciassette milioni, il bilancio del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) di cui beneficia, in particolar modo, l’edilizia carceraria che comprende la realizzazione di nuove infrastrutture e il potenziamento di quelle esistenti, escludendo la manutenzione ordinaria. E tralasciando, così, il diritto a condizioni strutturali degne che, al pari di quello alla salute, alla territorialità della pena, allo studio e al lavoro, dovrebbe essere garantito e che, invece, viene puntualmente violato: nel 2018, di violazioni, ne sono state registrate centoventi, una ogni tre giorni.

Un’asta al ribasso sui diritti fondamentali che, nell’anno considerato, ha contato più di diecimila casi di autolesionismo e sessantaquattro suicidi, causati pure da abusi e maltrattamenti che le denunce, pervenute per mail al Difensore civico di Antigone e riportate nel Rapporto, ancora al vaglio dell’Autorità giudiziaria, testimonierebbero. Il numero dei suicidi nelle carceri nostrane fa schizzare il Belpaese in vetta alla classifica europea, toccando punte percentuali del 38 per cento e così superando la media europea del 28 per cento. In cima, l’Italia, anche, per i tassi di persone detenute senza una condanna definitiva, pari al 34 per cento del totale contro il 23 per cento della media Ue. Nella quale, sempre l’Italia, è il primo Paese per incremento della popolazione detenuta, in controtendenza rispetto al resto del continente; le sue carceri sono le più affollate, con un tasso del 115 per cento versus il 93 per cento della media europea, e la presenza di stranieri nel sistema penitenziario italiano è percentualmente molto più elevata che nel resto d’Europa. Conseguenza di una legislazione che, ostacolando percorsi di lavoro regolari, spinge nel circuito dell’illegalità.

E sebbene sia il Paese europeo in cui si uccide meno, i detenuti delle carceri italiane hanno pene molto più alte dei vicini europei: le persone detenute che scontano l’ergastolo rappresentano il 4,4 per cento dei condannati contro una media del 3,5 per cento e le condanne comprese tra i dieci e venti anni registrano sei punti percentuali in più della media degli Stati europei. Tradotto: in Italia si sta in carcere più che negli altri Paesi europei, con pene che finiscono per essere de-socializzanti. In barba all’articolo 27 della Costituzione, secondo cui «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione» dei condannati. Che, a oggi, sono 60.439. Quasi diecimila in più dei posti letto ufficialmente disponibili, con un sovraffollamento che sfiora il 120 per cento. E non per colpa degli stranieri.