Si chiamano reti neurali artificiali e il loro utilizzo negli scavi archeologici aiuta a comprendere la struttura delle civiltà da cui provengono i reperti

L’archeologia in questi ultimi anni ha attinto ampliamente dalle recenti scoperte in campo tecnologico e informatico, facendo di quest’ultime un valido strumento di conoscenza e di analisi.
Un momento fondamentale della ricerca archeologica è proprio quello che segue lo scavo, certo meno capace di catturare l’immaginario popolare, ma di fondamentale importanza per cercare di svelare le misteriose e nascoste trame del passato. Come degli investigatori della storia, immagine questa cara all’archeologo Andrea Carandini, ci troviamo su una scena del delitto e il nostro compito è quello di decifrare più indizi possibili per cercare di restituire un’immagine definita a quello che ai nostri occhi appare all’inizio come un puzzle smontato e scomposto in migliaia di pezzi.
Il lavoro sul campo e la ricerca hanno sempre prodotto un’enorme quantità di dati sia qualitativi sia quantitativi. Senza alcuni strumenti fatti per comprimere la loro mole, i dati derivati dalla ricerca archeologica non potrebbero mai essere interpretati o pubblicati. Gli archeologi sono ormai da decenni in grado di utilizzare metodi statistici e matematici per facilitare la lettura e l’interpretazione dei dati e di realizzare istogrammi e grafici, ma la ricerca si è spinta oltre i metodi classici di analisi matematica fino ad utilizzare un approccio basato sui modelli.
La creazione di modelli è sempre stata parte integrante dell’evoluzione dell’archeologia, almeno negli ultimi quarant’anni. Nel senso più ampio, l’archeologia è lo studio delle attività umane appartenenti al passato e un modello è una rappresentazione semplificata del sistema-realtà che ne riassume le caratteristiche eliminando gli elementi superflui.
Le società umane nel loro contesto naturale possono essere considerate come sistemi complessi. Tali sistemi sono costituiti da molte parti che interagiscono tra di loro e che si trovano in ogni gerarchia dell’universo, dal livello molecolare come la struttura a doppia elica del Dna fino ai sistemi planetari e ai modelli che spiegano addirittura l’universo. In ogni progetto, i ricercatori hanno bisogno di farsi un’idea del problema in esame, indagando, esaminando i dati e osservando come sono distribuiti.
Il dato archeologico non è però solamente un semplice “record” che può essere codificato, comparato e collezionato e dal quale si possono estrarre informazioni; il “record” è parte integrante di un processo d’informazioni nel quale l’oggetto è solo un tramite e non un fine del flusso informativo. Il dato archeologico è condizionato da una serie di fattori nel quale il contesto è determinato dalle dinamiche di un sistema cognitivo che si auto-organizza in maniera spesso difficile da decodificare con “semplici” sistemi probabilistici e statistici, che invece veicolano un’interpretazione che somiglia più ad una foto istantanea che a un racconto che si svolge nelle trame del tempo. Compito dell’archeologo è quello di restituire la parola al reperto, codificare la sua lingua le cui regole spesso si sono perse nella notte dei tempi, renderlo testimone parlante di fatti accaduti migliaia di anni fa e di trovare il modello che rappresenti in maniera più esaustiva possibile la sua storia.
Particolarmente significative sono stati in questi ultimi anni per esempio, le analisi dei campi figurativi nei vasi dipinti della cultura greca e per quanto riguarda la disciplina di cui mi occupo, Archeologia e Storia dell’Arte del Vicino Oriente Antico, le indagini di archeologia territoriale, quelle sulla scrittura cuneiforme delle prime tavolette e sulle iconografie dei sigilli cilindrici. L’ultima frontiera in questo tipo di ricerca in campo archeologico che si fissa come obiettivo quello di comprendere ed interpretarne gli schemi figurativi e il nesso che li lega alle iscrizioni, propone l’utilizzo delle Reti Neurali Artificiali come strumento d’analisi delle relazioni complesse che connettono testi e figure, iconografie e ideogrammi, segni e parole.
Per definizione, una rete neurale è un sistema di hardware o software, modellato sul funzionamento dei neuroni del cervello umano, in questo senso aiuta i computer a pensare ed imparare come gli esseri umani.
Se da bambini tocchiamo una tazza di latte bollente e ci bruciamo, la volta successiva sicuramente saremmo molto più prudenti nel toccarla. Abbiamo appreso dalla nostra esperienza che una tazza di latte può essere calda.
Questo adeguamento della nostra conoscenza e comprensione del mondo che ci circonda, si basa sul riconoscimento di modelli. Come noi, anche i computer imparano attraverso lo stesso tipo di riconoscimento di schemi. Questo apprendimento costituisce l’intera base del funzionamento delle reti neurali.
Una tazza, il colore bianco, il latte, la sensazione di bruciore di toccare una tazza calda: tutto questo è una possibile connessione neuronale. Il nostro cervello ha raccolto dati per tutto questo tempo. Questi dati rendono determinante la probabilità che la tazza che stiamo per toccare sia o meno calda. Le reti neurali apprendono nello stesso modo.
Una rete neurale artificiale può fare praticamente tutto purché sia possibile ottenere dati sufficienti e una macchina efficiente per ottenere i parametri corretti.
Le reti neurali costituiscono la spina dorsale di quasi ogni grande tecnologia o invenzione odierna. A seconda del modo in cui si “nutre” una rete e del tipo di apprendimento che si utilizza, è possibile ottenere molto da una rete neurale rispetto a un sistema informatico tradizionale, soprattutto nel caso in cui ci occorrano risposte sfumate, che non prevedano solo un sì o un no e soprattutto quando si desideri una risposta di tipo predittivo.
La ricerca archeologica può trarre un enorme beneficio da questo tipo di approccio, abbiamo una grande quantità di informazioni, ma spesso sono incomplete e la possibilità di poterle esaminare non solo in simultanea, ma addirittura di ottenere una classificazione che prescinda dalle nostre teorie iniziali ci apre scenari infiniti.
In particolare, lo studio dei sigilli cilindrici, una delle testimonianze più affascinanti e ricche di informazioni che la cultura del Vicino Oriente antico ci abbia lasciato.
I sigilli sono oggetti capaci di portare con loro, nonostante le piccole dimensioni tutto un universo di sapere e conoscenze.
Sono contemporaneamente piccoli oggetti d’arte, alcuni dei quali di mirabile fattura, gemme preziose che vennero utilizzate come ornamenti, amuleti apotropaici indossati per allontanare le forze del male, ma soprattutto assolvono per noi all’importantissimo ruolo di segni posti all’apice di particolari e diversificate procedure burocratiche e amministrative.
In questo senso specifico, possono essere considerati documenti in bilico tra una dimensione simbolica legata al loro aspetto più propriamente visivo e connesso al mondo delle immagini ed una per così dire più concreta, esplicitata dalle iconologie e dalle epigrafi, ovvero spesso e nel corso dei millenni anche più volte, dall’azione umana esercitata su di loro, per riusarli e tradurli in altro sistema.
Uno studio dei sigilli alla luce degli orientamenti moderni della ricerca archeologica computazionale e cognitiva non può più prescindere dal considerarli nella loro interezza e nell’analizzarli come portatori di messaggi a diversi livelli e di una comunicazione non verbale, ma di tipo figurativo e ideografico che va svelata ed interpretata.
La rete neurale in questo caso ha il compito di trasformare il campo figurativo in una serie di variabili: presenza di uno o più personaggi, come sono abbigliati, presenza o assenza di simboli astrali, presenza o assenza di un’iscrizione ecc… Tutti questi input, trasformati in linguaggio binario (1 presenza, 0 assenza), vengono dati in pasto alla rete neurale che li elabora e li trasforma in speciali raggruppamenti detti “clusters”.
Lo studio di questo gruppo di variabili spesso ci svela accostamenti del tutto sorprendenti che ci aiutano a considerare questo insieme di oggetti sotto una nuova luce e a stimolarne la ricerca e l’approfondimento.
Uno degli ultimi sviluppi delle reti neurali artificiali è il Deep Learning, che ha notevolmente potenziato le possibilità delle reti neurali artificiali. In una disciplina come l’archeologia e soprattutto nello studio dei sigilli, dove spesso il reperto viene ritrovato in condizioni di riuso o con impronte parziali tali da rendere complicata loro identificazione, il Deep Learning diventa uno strumento formidabile. La rete viene addestrata a riconoscere il frammento e a catalogarlo, comparandolo con migliaia di immagini selezionate dalla rete in fase di addestramento e a ricostruirne l’aspetto anche in presenza di oggetti profondamente danneggiati dal tempo, oppure ad integrare parti mancanti di un testo, la stessa tecnologia utilizzata da Facebook che è in grado di riconoscere le persone all’interno di una fotografia caricata sul social e di “taggarle” anche quando la persona non è in primo piano e in condizione di luce non favorevole.
Ecco quindi che una disciplina così strettamente legata al passato sta sempre più velocemente proiettandosi verso il futuro offrendoci la possibilità non solo di disvelare oggetti che ci raccontino una storia, ma di entrare quasi nel cervello di uomini che abitavano la terra migliaia di anni fa e cercare di ricreare il loro pensiero che per noi ormai uomini moderni ci sembra alieno e indecifrabile, connessioni che a noi sembrano impensabili, diventano lo stimolo della nostra ricerca, i condizionamenti mentali e culturali costruiti da centinaia di anni di dominio del Logos occidentale vengono di colpo eliminati, come una nebbia che si dirada e permettere di vedere più chiaro, e si apre davanti a noi un punto di vista diverso, nuovo, anche se non bisogna mai cadere nella trappola di considerare i risultati come verità assolute, ma solo come finestre aperte come i nostri occhi su un mondo nuovo e antico contemporaneamente.