Per chi nasce povero, le possibilità di salire sull’ascensore sociale dipendono dagli investimenti nell’istruzione. Pertanto sono minori nella gran parte dei Paesi dell’Est e dell’Europa meridionale (Italia compresa), mentre aumentano nella parte continentale e settentrionale

La povertà – in particolare quella minorile – presenta aspetti che coinvolgono svariate dimensioni della persona, non solo il reddito, ricorda la Banca mondiale nel rapporto Poverty and shared prosperity 2018. Raffaella Milano, direttore dei Programmi Italia-Europa di Save the children conferma l’assunto: «La povertà è “multidimensionale”, riguarda anche la salute, la crescita… quindi vivere in povertà durante l’infanzia significa che spesso questa condizione non può essere superata in nessun modo». L’efficacia delle misure di contrasto alla povertà, dunque, non va considerata solo in termini monetari ma anche in termini di realizzazione dell’identità di una persona nella misura in cui viene messa nelle condizioni di soddisfare bisogni ed esigenze.
Una discriminante fondamentale è l’accesso ai servizi pubblici essenziali per la persona e la loro qualità e distribuzione sul territorio. L’obiettivo dovrebbe essere quello di offrire a bambini e adolescenti uguali opportunità formative, a prescindere dalla fascia di reddito delle famiglie di appartenenza. «È prioritario garantire a tutti un’educazione di qualità, dall’asilo fino ai gradi più alti di istruzione», si legge nell’ultimo report di Openpolis sulla povertà minorile in Italia, che evidenzia l’impossibilità di contrastare il fenomeno senza un forte investimento nei servizi rivolti ai minori e all’infanzia. Solo così si può sbloccare l’ascensore sociale che nel nostro Paese è ormai troppo difettoso: secondo una stima dell’Ocse, ci vogliono circa cinque generazioni perché in Italia un bambino che nasce in una famiglia a basso reddito possa raggiungere un reddito medio.
Purtroppo, ciò che emerge dai dati di Openpolis non è confortante: in Italia si tende a spendere troppo poco in istruzione – il 3,9% del Pil -, contro una media europea del 4,7%. Una percentuale inferiore anche rispetto agli altri principali Stati Ue, come la Francia (5,4%), il Regno Unito (4,7%) la Germania (4,2%). Per non parlare della…

L’inchiesta di Sabrina Certomà prosegue su Left in edicola dal 28 giugno 2019


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