È passato un anno da quando Greta Thunberg ha iniziato a protestare in modo clamoroso per richiamare l’attenzione delle istituzioni e della politica sui cambiamenti climatici e sul rispetto dell’accordo di Parigi di dicembre 2015 (COP21) sul cambiamento climatico. Per merito suo l’Europa e il mondo intero hanno preso coscienza della gravità della situazione, gravità nota già da anni in ambito scientifico. Ormai non abbiamo bisogno di credere alla scienza: basta che ci guardiamo intorno. Giugno 2019 è stato il secondo giugno più caldo in Italia dal 1800. La temperatura è stata 3,3 gradi superiore alla media. Ma non solo: questo caldo “anomalo” è stato accompagnato da fenomeni che continuiamo a chiamare “estremi” come grandinate con chicchi grossi come aranci. La flora, già provata da un inverno anomalo, sta soffrendo di malattie che si diffondono velocemente.
Ma cosa hanno ottenuto le grandi mobilitazioni (i “Fridays for Future”) che sono seguite alla protesta di Greta? Sicuramente una maggiore coscienza individuale di tante persone. Molto meno si sono viste azioni concrete da parte dei governi. In Italia non è in vista alcuna azione, tutt’altro. Il caso Ilva ci insegna che si guarda altrove.
Ma la crisi ambientale non è solo crisi climatica. Ad esempio gli insetti, essenziali per i nostri ecosistemi, si stanno estinguendo a una velocità otto volte superiore rispetto a quella dei mammiferi, dei rettili e degli uccelli. Secondo i ricercatori, più del 40 per cento delle specie d’insetti conosciute è in costante declino e almeno un terzo è in pericolo (fonte: Biological Conservation).
La siccità è un altro grande problema: studi scientifici (Kate Marvel et. altri su Nature) dimostrano la correlazione tra attività umane, in particolare industriali, e inaridimento: l’Europa e in particolare l’area mediterranea verranno colpite dall’aumento dell’evaporazione e dalla riduzione delle piogge portando larghe porzioni di territorio ora fertili a diventare aride.
Potremmo portare tanti altri esempi, dallo scioglimento dei ghiacciai all’erosione del suolo, il dissesto idrogeologico, l’innalzamento dei mari, l’invasione di fauna “aliena” …
Tutti segnali che ci dicono che l’attività dell’uomo modifica gli equilibri naturali del nostro pianeta. La domanda che sorge spontanea è se l’uomo sia una forma di vita incompatibile con il mondo in cui vive. La risposta è semplice: l’uomo è compatibile, è il modello sociale in cui viviamo, basato sullo sfruttamento compulsivo delle risorse naturali e umane, che è incompatibile.
Sgombriamo subito un’ambiguità: il Pianeta non sarà distrutto dall’uomo, è sopravvissuto a catastrofi ben più grandi, basta pensare al cambiamento dell’asse di rotazione. L’uomo distruggerà se stesso o, almeno, distruggerà il modello sociale e relazionale che abbiamo conosciuto noi. Perché, e cercheremo di capirne le motivazioni in seguito, il sistema capitalistico non è compatibile con la conservazione dell’ambiente che ci circonda. Quindi, necessariamente, dovremo arrivare a un modello sociale diverso se vogliamo garantire l’esistenza della razza umana. E ci possiamo arrivare in diversi modi:
Continuando l’attuale indiscriminata corsa allo sfruttamento di tutte le risorse fino a che l’inevitabile crisi ambientale ci condurrà a disastri di tale portata – uragani, siccità, scomparsa di parte delle terre emerse, crisi alimentare, inquinamento, malattie, guerre locali e di teatro … – che, in modo violento, porteranno una forte riduzione del numero di abitanti sulla terra e un radicale cambiamento nello stile di vita dei superstiti. Ovviamente i più colpiti saranno i più deboli mentre l’1% della popolazione che già detiene la maggioranza delle “ricchezze” del Pianeta probabilmente si arricchirà ancor di più e riuscirà a crearsi delle “isole di sopravvivenza” protette e per loro appaganti. Le diseguaglianze aumenteranno ancora e in modo sempre più drammatico.
Adottando una politica di “riformismo ambientale” in grado di attenuare gli effetti devastanti dell’azione antropica sulla natura. Misure in grado di ridurre l’emissione di gas serra, di contrasto alla siccità, di contenimento dell’aumento della temperatura media, di sfruttamento della “risorsa acqua”. Mirando a “rigenerare parzialmente” le risorse naturali senza modificare il nostro modello di vita sociale e quindi senza modificare il modello di sfruttamento delle risorse umane e naturali. Politiche funzionali a continuare lo sfruttamento capitalistico di tutte le risorse travestendolo con il nome di “economia sostenibile”. Sostenibile nel senso che si cerca di sfruttare le risorse in maniera meno devastante, consumandole più lentamente, provando a creare le condizioni perché, almeno in parte, le risorse naturali si rigenerino. Un modo di rinviare la soluzione del problema, un modo di assicurarsi ancora qualche anno. Una soluzione che è una “non soluzione”.
Con una rivoluzione sociale-ambientale che in modo progressivo, pacifico ma deciso, cambi radicalmente i valori alla base della nostra società andando a sostituire modelli di sviluppo basati sulla concorrenza, l’accumulo, il consumo compulsivo e lo sfruttamento con un nuovo modello sociale che permetta lo sviluppo basato sulla conservazione delle risorse, il consumo responsabile delle risorse di vicinanza e la ricostituzione delle risorse consumate. In questo modello la competizione, l’egoismo, la sopraffazione, l’accumulo privato e il consumo compulsivo di beni spesso non indispensabili, lo sfruttamento sarebbero sostituiti dalla collaborazione, la condivisione, la felicità del tempo libero, il benessere sociale, la salute, un lavoro appagante e dall’equa ripartizione dei beni comuni nel reciproco rispetto.
Pare evidente che, bene che ci vada, allo stato dei fatti, sarà adottato il “riformismo ambientale”.
I costi, sociali ed economici che stiamo subendo, e che continueremo a subire nel caso di “riformismo ambientale” sono enormi: ma sono costi a carico della collettività, a carico delle fasce più deboli delle popolazioni occidentali e, soprattutto, a carico delle popolazioni più indifese dei paesi in via di sviluppo. Viceversa le cause della crisi in atto derivano essenzialmente dallo sfruttamento delle risorse, umane e naturali, al fine di conseguire profitti privati sempre più elevati. Lo dimostra il fatto che l’1% della popolazione già detiene la maggioranza delle “ricchezze” del Pianeta mentre il rimanente 99% si divide il poco che resta.
Viceversa solo il radicale cambiamento del modello sociale, un vero socialismo ambientale, ci consentirebbe di risolvere definitivamente le crisi in atto. E di creare un nuovo modello di sviluppo in cui economia e lavoro siano a servizio dell’ambiente e viceversa.