A pochi giorni dalla entrata in vigore del cd. Codice Rosso (l’8 agosto, ndr), un caso di cronaca solleva non pochi interrogativi sula sua potenziale efficacia. A Treviso un uomo, che nel 2013 tentò di uccidere l’allora compagna strangolandola fino a farle perdere i sensi, simulando un incidente in auto e dando fuoco al veicolo, potrà usufruire di una misura alternativa alla detenzione prevista dall’ordinamento penitenziario e sconterà parte della pena fuori dalle mura carcerarie in regime di semilibertà.
In particolare, i Giudici del Tribunale di Sorveglianza di Venezia (organo competente nella fase esecutiva) hanno stabilito, a fronte di una condotta regolare e partecipativa a corsi e attività, che il condannato possa abbandonare la propria cella per alcune ore durante il giorno, per poi farvi ritorno per la notte.
Legittimamente la vittima, l’ex moglie, teme di poter incontrare nuovamente l’uomo che solo 6 anni fa tentò di ucciderla.
Si ricorda che il 18 luglio scorso il Senato ha approvato, con 197 voti favorevoli e 47 astensioni, il D.D.L. n. AC 1455-A, rinominato “Codice Rosso”. La nuova Legge era nata con l’obiettivo di inasprire la disciplina penale della violenza domestica e di genere, cercando di rendere più agevoli e rapidi i processi in sede penale per accertare le conseguenti responsabilità. Ma cosa si è fatto per riformare la fase esecutiva? In altri termini, se si vuol parlare di corsia preferenziale – che peraltro già c’era – non valeva anche inserire qualche correttivo per il post-processo?
La riforma su questo punto nulla ha modificato e vi è la possibilità che situazioni del genere si ripetano. A tacer di critiche, quello che qui si esprime non riguarda la parità di trattamento in esecuzione ma, lo si ripete, una – seppur tecnica – critica all’ennesimo provvedimento zoppo.
È proprio questo aspetto, allora, che rende la riforma approvata incompleta: il Governo prima ed il Parlamento poi, si sono concentrati solo sulla fase cognitiva del giudizio penale, tralasciando completamente la – fondamentale – parte legata alla fase di esecuzione della pena.
Si configura, in questo modo, un evidente squilibrio, poiché da un lato le pene per questi delitti sono ora aumentate, ma dall’altro lato, i condannati potranno comunque usufruire della rosa di misure alternative previste dall’ordinamento penitenziario ed uscire dal carcere prima dell’espiazione completa della pena.
Il punto debole della Legge è, dunque, rinvenibile nella mancanza di una specifica previsione limitativa dei benefici premiali in sede esecutiva per i condannati dei reati coinvolti nella riforma.
Peraltro, una simile impostazione normativa è già prevista dall’art. 4 bis L. 354/75, rubricato «divieto di concessione dei benefici e accertamento della pericolosità sociale dei condannati per taluni delitti», che per l’appunto dispone uno stringente limite al godimento delle misure alternative per coloro che si siano resi responsabili di delitti di associazione mafiosa o di violenza sessuale, dunque assolutamente analoghi ai reati di genere, le cui pene sono state ora innalzate.
Bastava ampliare questo elenco, includendo tutti i reati citati nella riforma. Non serviva altro.
Il provvedimento, seppur apprezzabile nell’ottica di una repressione dei fenomeni di violenza sulle donne, risulta essere, dunque, perfettibile a fronte della mancanza di un’opera di armonizzazione tra la disciplina sostanziale e quella di cui all’ordinamento penitenziario.
Una siffatta impostazione può comportare il rischio, come nel caso di Treviso citato poc’anzi, che un uomo, condannato per un reato di genere, possa dopo una manciata d’anni uscire dal carcere in regime di semilibertà e incontrare nuovamente la vittima: tuttavia, è proprio riguardo a tali delitti che le esigenze di restrizione permangono per tutta la durata della pena.
Concludendo, un aumento di pena da solo non basta a prevenire il rischio di configurazione del reato: a ciò vanno aggiunti sia strumenti di prevenzione in senso stretto che limitazioni in fase esecutiva. Peraltro una simile impostazione è stata seguita dalla Legge 3/19 (la “spazzacorrotti”) che ha ampliato l’elenco dei reati ostativi, introducendo quelli legati al fenomeno della corruzione. Anche qui silenzio su tutti gli altri strumenti preventivi.
Alessandro Parrotta è avvocato e direttore di Ispeg