C'era nel pensiero degli anarchici («La mia patria è il mondo intero», scriveva Pietro Gori), ma c’era - in chiave ancor più rivoluzionaria perché collettiva - nel pensiero marxiano «proletari di tutto il mondo unitevi». Provocatoriamente potremmo dire anche che il cosmopolitismo è sempre stato un tratto distintivo ed evolutivo di Homo sapiens. La nostra specie è da sempre naturalmente nomade. Non solo per bisogno. Ma anche per curiosità, per esigenza di conoscenza dell’altro e di ampliamento dei propri orizzonti, come ci insegnano gli antropologi. Ma in tempi di rigurgiti nazionalisti e sovranisti come quelli che stiamo vivendo, la parola cosmopolitismo ci appare sempre più necessaria, da riscoprire, nel suo senso più profondo. Abbiamo chiesto al filologo e studioso del mondo antico Luciano Canfora di aiutarci a ricostruirne l’origine e a comprenderne l’attualità. Professor Canfora come leggere la parola cosmopolitismo in tempi di sovranisti al governo? Intanto dobbiamo dire che il cosmopolitismo è l’esatto contrario del razzismo, poiché il razzismo si fonda (più o meno apertamente) sull’idea della supremazia di alcuni su altri, di un popolo, di un gruppo più o meno definibile rispetto a tutti gli altri. Le leggi razziali del 1938 si fondavano sulla premessa della difesa della razza da “inquinamenti”. La copertina di quel periodico ridicolo che si chiamava La difesa della razza raffigurava un italiano più o meno apollineo nei tratti, distinto, separato da un ebreo, ovviamente bruttissimo quanto nasuto, e da un nero, nerissimo. Questa era la “cultura”, il livello mentale dei vari Interlandi, Mussolini, Pende, e dei tanti cosiddetti intellettuali che si misero a scrivere sulla difesa della razza. Riprendere oggi a coltivare il cosmopolitismo potrebbe essere un antidoto rispetto all’ideologia suprematista e isolazionista alla Trump? È antistorica la sua visione condivisa da Salvini che dice: «Prima gli italiani»? Non direi antistorica. È pre culturale, al di sotto della media minima necessaria degli esseri pensanti, è una forma sub umana di pensiero (o meglio di non pensiero), che ha una sua forza soltanto nella campagna ferocissima di cacciata dei migranti, di disseminazione della paura, di additamento di un nemico che non è un nemico, esattamente come durante il nazionalsocialismo tedesco si additava l’ebreo come l’affamatore del popolo. È lo stesso meccanismo. Il cosmopolitismo è un antidoto? È ben più che un antidoto, noi abbiamo scelto questo tema qui a Genova, proponendolo alla cittadinanza e alle scuole, perché riteniamo che il mondo tutto corra pericolo, dall’America di Trump al nostro Paese. Cosa dire a chi anche a sinistra prospetta un ritorno a un’idea di patria seppur legata alla Costituzione? Di curarsi la mente e di studiare la storia. In un quadro europeo e mondiale dove le disuguaglianze economiche e sociali sono sempre più feroci c’è chi dice che il cosmopolitismo sia un privilegio di pochi. Non so chi dica che il cosmopolitismo sia un concetto elitario. Il compagno Marx disse «gli operai non hanno patria», nel senso che gliela hanno tolta. «Proletari di tutto il mondo unitevi». Spero che queste parole tornino a risuonare. Dunque il cosmopolitismo si può legare a un’idea di uguaglianza fra tutti gli esseri umani? Si deve legare a un’idea di uguaglianza! Il fatto stesso di concepire la caduta delle barriere nazionali e delle barriere sociali significa lavorare per l’uguaglianza. Un pensatore molto originale come il sofista Antifonte in un testo che si è conservato solo in parte, dice: «Noi siamo più barbari dei barbari perché crediamo alla differenza fra i Greci e i Barbari, tra gli schiavi e liberi». Quest’anno ricorre il trentennale della caduta di Berlino, ma ancora non abbiamo realizzato un mondo senza muri, anzi ne stiamo costruendo di nuovi... La caduta del muro di Berlino fu l’effetto di una situazione diplomatica complessa, che sarebbe lungo descrivere. Alla base c’era la crisi del sistema sovietico e del sistema socialista al proprio interno. Quello che era un confine di Stato fu gestito malissimo, in maniera punitiva e sbagliata. Ma il muro che è stato quasi portato a compimento fra Messico e Usa è molto più grave perché è il simbolo del razzismo trionfante.

C’era nel pensiero degli anarchici («La mia patria è il mondo intero», scriveva Pietro Gori), ma c’era – in chiave ancor più rivoluzionaria perché collettiva – nel pensiero marxiano «proletari di tutto il mondo unitevi».

Provocatoriamente potremmo dire anche che il cosmopolitismo è sempre stato un tratto distintivo ed evolutivo di Homo sapiens. La nostra specie è da sempre naturalmente nomade. Non solo per bisogno. Ma anche per curiosità, per esigenza di conoscenza dell’altro e di ampliamento dei propri orizzonti, come ci insegnano gli antropologi. Ma in tempi di rigurgiti nazionalisti e sovranisti come quelli che stiamo vivendo, la parola cosmopolitismo ci appare sempre più necessaria, da riscoprire, nel suo senso più profondo. Abbiamo chiesto al filologo e studioso del mondo antico Luciano Canfora di aiutarci a ricostruirne l’origine e a comprenderne l’attualità.

Professor Canfora come leggere la parola cosmopolitismo in tempi di sovranisti al governo?

Intanto dobbiamo dire che il cosmopolitismo è l’esatto contrario del razzismo, poiché il razzismo si fonda (più o meno apertamente) sull’idea della supremazia di alcuni su altri, di un popolo, di un gruppo più o meno definibile rispetto a tutti gli altri. Le leggi razziali del 1938 si fondavano sulla premessa della difesa della razza da “inquinamenti”. La copertina di quel periodico ridicolo che si chiamava La difesa della razza raffigurava un italiano più o meno apollineo nei tratti, distinto, separato da un ebreo, ovviamente bruttissimo quanto nasuto, e da un nero, nerissimo. Questa era la “cultura”, il livello mentale dei vari Interlandi, Mussolini, Pende, e dei tanti cosiddetti intellettuali che si misero a scrivere sulla difesa della razza.

Riprendere oggi a coltivare il cosmopolitismo potrebbe essere un antidoto rispetto all’ideologia suprematista e isolazionista alla Trump? È antistorica la sua visione condivisa da Salvini che dice: «Prima gli italiani»?

Non direi antistorica. È pre culturale, al di sotto della media minima necessaria degli esseri pensanti, è una forma sub umana di pensiero (o meglio di non pensiero), che ha una sua forza soltanto nella campagna ferocissima di cacciata dei migranti, di disseminazione della paura, di additamento di un nemico che non è un nemico, esattamente come durante il nazionalsocialismo tedesco si additava l’ebreo come l’affamatore del popolo. È lo stesso meccanismo.

Il cosmopolitismo è un antidoto?

È ben più che un antidoto, noi abbiamo scelto questo tema qui a Genova, proponendolo alla cittadinanza e alle scuole, perché riteniamo che il mondo tutto corra pericolo, dall’America di Trump al nostro Paese.

Cosa dire a chi anche a sinistra prospetta un ritorno a un’idea di patria seppur legata alla Costituzione?

Di curarsi la mente e di studiare la storia.

In un quadro europeo e mondiale dove le disuguaglianze economiche e sociali sono sempre più feroci c’è chi dice che il cosmopolitismo sia un privilegio di pochi.

Non so chi dica che il cosmopolitismo sia un concetto elitario. Il compagno Marx disse «gli operai non hanno patria», nel senso che gliela hanno tolta. «Proletari di tutto il mondo unitevi». Spero che queste parole tornino a risuonare.

Dunque il cosmopolitismo si può legare a un’idea di uguaglianza fra tutti gli esseri umani?

Si deve legare a un’idea di uguaglianza! Il fatto stesso di concepire la caduta delle barriere nazionali e delle barriere sociali significa lavorare per l’uguaglianza. Un pensatore molto originale come il sofista Antifonte in un testo che si è conservato solo in parte, dice: «Noi siamo più barbari dei barbari perché crediamo alla differenza fra i Greci e i Barbari, tra gli schiavi e liberi».

Quest’anno ricorre il trentennale della caduta di Berlino, ma ancora non abbiamo realizzato un mondo senza muri, anzi ne stiamo costruendo di nuovi…

La caduta del muro di Berlino fu l’effetto di una situazione diplomatica complessa, che sarebbe lungo descrivere. Alla base c’era la crisi del sistema sovietico e del sistema socialista al proprio interno. Quello che era un confine di Stato fu gestito malissimo, in maniera punitiva e sbagliata. Ma il muro che è stato quasi portato a compimento fra Messico e Usa è molto più grave perché è il simbolo del razzismo trionfante.