«Era l’ultima cosa che avrei voluto, purtroppo sono stata costretta a diventare un punto di riferimento. Ma quello che è successo può ancora accadere a chiunque. Non possiamo più voltarci dall’altra parte».

«Andrò avanti con l’associazione che porta il nome di Stefano. Ha ragione chi dice che lo strumentalizzo, continuerò a farlo, perché tramite lui ricordiamo tutti gli altri Stefano».

Da quella notte di ottobre 2009, Ilaria Cucchi si interroga su cosa si dovrebbe fare «perché non succeda mai più», come, prima di lei, scrissero su un lenzuolo gli amici di Federico Aldrovandi quando scesero in piazza un anno dopo l’uccisione del diciottenne ferrarese da parte di quattro agenti. E prima di loro ci aveva pensato Haidi Giuliani, la mamma di Carlo, che provò a mettere insieme «il Paese dei comitati», come lo chiamava Manlio Milani, il marito di Livia Bottardi che morì nella strage di Brescia 27 anni prima di Carlo, 31 prima di Federico, 35 prima di Stefano.

L’unica cosa che possiamo fare è un lavoro di sensibilizzazione. In fondo è quello che stiamo facendo. Ed è l’unica speranza che abbiamo», dice la sorella di Cucchi al termine di un’ennesima, partecipatissima, proiezione collettiva di Sulla mia pelle, il film di Cremonini che ricostruisce l’ultima settimana di vita di Stefano. Migliaia di persone, da un mese, vi prendono parte nelle piazze, nelle università, nei centri sociali nonostante la lunga notte della Repubblica del tempo di Salvini e Di Maio.

Oltre cinque anni fa, l’assoluzione delle guardie penitenziarie nel primo processo, quello che ignorava il ruolo dei carabinieri che avevano arrestato Cucchi, sembrava una pietra tombale sulla battaglia di verità e giustizia.

Centinaia di persone diedero vita alle “mille candele” sotto il Csm per illuminare quei luoghi bui dove ogni giorno si umiliano le esistenze e si calpesta la democrazia. Fu un nuovo inizio.

Poi l’inchiesta bis, un altro processo e le rivelazioni di Francesco Tedesco.

Tutto quello che in questi anni avevo solo potuto immaginare, il tassello che mancava adesso è arrivato», ripete Ilaria Cucchi da quando le rivelazioni di uno dei carabinieri imputati per l’omicidio preterintenzionale di suo fratello hanno confermato quello che immaginava da quando aveva rivisto Stefano sul tavolo dell’obitorio.

Dieci anni fa. E mentre lei era in obitorio, Tedesco scriveva un rapporto su quello che era accaduto una settimana prima, la notte dell’arresto. Ma lei non poteva saperlo perché il “muro” era già stato issato, erano spariti i nomi di chi aveva preso parte all’arresto, erano stati falsificati i verbali, sarebbe sparito anche quel rapporto, un ministro del governo Berlusconi, La Russa, aveva ordinato di lasciar stare i carabinieri, che non c’entravano. La notte della Repubblica non è iniziata ieri.

Il muro serviva a fare la guerra a noi.

Colpevolizzazione secondaria, direbbero gli addetti ai lavori della giurisprudenza: la tendenza a processare le vittime quando i carnefici sono potenti, magari in divisa.

Non ci siamo fermati e, col tempo, siamo diventati sempre di più. Sono stati anni difficilissimi, la mia vita è cambiata per sempre. Io sono cambiata e se anche domani Stefano dovesse tornare a casa, tutto il dolore non ce lo toglierebbe nessuno. Dieci anni fa ero una persona che si fidava talmente delle istituzioni da affidare loro mio fratello di fronte a quello che percepivo come un mio fallimento. Nel momento più brutto della nostra vita, però, quelle stesse istituzioni ci voltavano le spalle. Lo Stato non era più nostro alleato ma il nostro peggior nemico, non potevo nemmeno immaginare che sarebbe stata una battaglia dentro e fuori le aule di giustizia.

Sono stati anni in cui ha scoperto una dimensione politica che mai avrebbe immaginato.

Era l’ultima cosa che avrei voluto, purtroppo sono stata costretta a diventare un punto di riferimento. Ma quello che è successo può ancora accadere a chiunque. Non possiamo più voltarci dall’altra parte.