Dietro gli incendi in Amazzonia c’è la lobby dell’agrobusiness che ha le mani libere grazie alle politiche neoliberiste, e razziste verso i nativi, del presidente brasiliano Bolsonaro. «È il nuovo Far West», denuncia Yurij Castelfranchi, docente all’Università di Minas Gerais. «E ora sono le indios e gli indios a difendere la democrazia»

Un «universo monumentale». Con queste parole l’antropologo Claude Lévi-Strauss definì l’Amazzonia dopo il suo viaggio in Brasile, nel quale tratteggiò il ritratto di tribù mai venute in contatto con la civiltà. Oggi, quell’universo e quelle tribù, sono sotto attacco. Legittimati dalle sciagurate politiche ambientali di Bolsonaro – che ad aprile si soprannominava da sé «capitan motosega» – gli agricoltori brasiliani, e in particolare i grandi latifondisti, hanno preso ad innescare incendi per abbattere la foresta pluviale e ottenere così terre da coltivare e pascoli. Ma anche per mettere in fuga le popolazioni indigene che la abitano, considerate un ostacolo per i loro affari, oppure ancora per cancellare le prove delle proprie attività di disboscamento illegale. Pratiche, queste, che si ripetono in effetti ogni anno, durante la stagione secca che inizia a giugno e termina a novembre. Ma che stavolta hanno visto un vero e proprio boom. Come testimoniano le molte immagini satellitari, drammatiche, in cui miriadi di chiazze fumanti di terra bruciata annebbiano il groviglio verde scuro della foresta. Foto che hanno fatto il giro del mondo, provocando un moto globale di indignazione. Così, dopo i presidi davanti i consolati brasiliani del movimento Fridays for future, il fascicolo è arrivato anche ai tavoli del G7 di Biarritz, in Francia, durante il quale i Paesi membri hanno deciso di stanziare 17,9 milioni di euro per il Brasile e gli altri Stati sudamericani colpiti dai fuochi in Amazzonia. Finanziamento presto respinto.

«Apprezziamo, ma forse queste risorse sono più utili per il rimboschimento dell’Europa» ha dichiarato Onyx Lorenzoni, capo dello staff di Bolsonaro, mentre quest’ultimo via Twitter colpiva il suo omologo francese Macron, accusandolo di trattare il Brasile come una colonia. I dati comunicati dall’Istituto nazionale di ricerche spaziali brasiliano, l’Inpe, indicano un aumento dell’80 per cento degli incendi nel Paese rispetto all’anno precedente (e pure un +103% in Bolivia e un +143 in Guyana). I roghi censiti dall’Istituto in tutto il Brasile dall’inizio dell’anno sono 82.285, il 51,9% dei quali si è sviluppato nel bioma amazzonico. E secondo le informazioni della Nasa, raccolte dal progetto Global fire atlas, i fuochi divampati da gennaio negli Stati di Amazonas (12.577) e Rondônia (12.955), nella zona nord-ovest del Paese, superano le cifre dei tre anni precedenti. «Ma anche il restante 30% degli incendi in Brasile, quelli innescati nel bioma Cerrado, la savana tropicale, sono gravissimi, perché colpiscono un’area ad altissima biodiversità, di straordinaria importanza ecologica», racconta a Left Yurij Castelfranchi, professore associato di Sociologia dell’Università federale di Minas Gerais.

«Poi, un altro indicatore da tenere in considerazione, sono le emissioni di Co2, anche quelle in spaventoso aumento», ricorda il professore. Nei nove Stati brasiliani del bacino amazzonico il volume di anidride carbonica sprigionata in atmosfera è il più alto dal 2010 (considerando le intere annate), stando ai grafici del programma Ue di monitoraggio ambientale Copernicus. E siamo solo ad agosto. Ma come nascono questi incendi? «Bisogna fare una premessa: pressoché ogni incendio che si sviluppa in Amazzonia è provocato direttamente dall’essere umano – chiarisce Castelfranchi -. Perché per dare fuoco alla foresta, in una zona con un tasso di umidità così alto, è necessario prima abbatterla, poi lasciare che il sole secchi le foglie e i tronchi disposti a terra, un processo…

L’intervista di Leonardo Filippi a Yurij Castelfranchi prosegue su Left in edicola dal 30 agosto 2019


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