Il cantautore con il suo nuovo album esplora la realtà tra ironia e riflessioni profonde. Il 14 in concerto a Padova e il 15 a Bologna

Giovanni Truppi lo si potrebbe semplicemente definire un cantautore impegnato perché predilige i temi forti, quelli politici e sociali, con frasi esplicite e zeppe di riflessioni. Canta della borghesia, di ricchezza e povertà, ma spesso di rapporti umani, di incontri e di addii, anche di desiderio. I suoi brani non sono mai verbosi, anzi, sono ironici e sapienti, amari e tristi, ma non abbandonano la speranza. Testi che poco hanno a che fare con i tormentoni estivi, ma che ci riconciliano con il tradizionale cantautorato. E infatti lo hanno ispirato musicisti come De André, Battiato, Paolo Conte, insieme a Bach, per via dei suoi studi classici. Completano la sua formazione gli americani Gershwin e Cole Porter. Laureato in Etnomusicologia, Giovanni Truppi studia pianoforte, si diploma in solfeggio, poi tanto jazz, canto, anche la chitarra, ma da autodidatta.

Questo è il suo quarto album di inediti cui ha dato un titolo che riassume tutto ciò di cui intende parlare oggi, con un linguaggio rinnovato, meno spigoloso e anarchico: Poesia e civiltà. Undici brani per raccontare il mondo che lo circonda, ma anche il suo di mondo. Una ricerca della dimensione spirituale che ha a che fare con l’introspezione, ma non con la religione anche se ne parla in modo ironico. Ne parliamo con lui durante il tour –  il 14 settembre sarà al Rise festival di Padova e il 15 settembre a Bologna, festival Tutto molto bello.

Definisci principi ispiratori Poesia e civiltà, il titolo del tuo nuovo album, che potremmo anche chiamare una doppia utopia, in questi tempi che di poetico e di civile non hanno poi molto.
È difficilissimo dare la definizione di poesia. Per me, poesia è quando si aggiunge qualcosa alla realtà per come la percepiamo. La civiltà è l’insieme di norme che ci diamo per stare insieme. In questo momento storico avevo l’esigenza di rimarcare in maniera così forte questi due argomenti che ho affrontato nel disco.

Sempre parlando di civiltà, e di utopie, nel brano “Ancient society” parli dell’aumento della ricchezza, che è diventata incontrollabile e va a danno degli uomini, ma arriverà, dici tu, il tempo in cui dominerà il benessere.
In realtà, le parole sono di Lewis Henry Morgan, un antropologo statunitense che ha le ha scritte quasi 150 anni fa. Io non ho una risposta, come evidentemente non l’aveva lui. Quando le ho lette, queste parole mi hanno commosso perché ho pensato che 150 anni fa questa persona già guardava una realtà come quella che vediamo adesso. Mi sembrano parole molto attuali e mi commuove che una persona potesse avere così tanto ottimismo e quindi ho pensato che mi sarebbe piaciuto molto rimetterle in circolo, insieme all’ottimismo. In realtà, tutto quello che vedo intorno a me, non mi fa pensare a niente di ottimistico.

Nelle tue canzoni parli dell’identità delle persone, di bellezza, del modo con cui ci poniamo nei confronti degli altri.
Per come sono cresciuto, il pubblico e il privato comunicano molto tra di loro: canto dei valori che vivo nel privato, ma anche di come mi rapporto nella realtà e nell’attività artistica. Le mie sono canzoni sentimentali, ma anche molto attuali, per esempio racconto anche il giorno delle elezioni (quelle del 2018 ndr).

Non pensi che invece della spiritualità, di cui parli, basterebbero il rispetto, l’accoglienza, il dialogo, l’ascolto nei riguardi dell’altro?
Sicuramente sono tutte cose importanti, ma a me sembra che quando riesco a dedicare a me stesso dei momenti di introspezione, poi miglioro anche sugli altri fronti. La spiritualità è indimostrabile; io la chiamo così, ma potremmo parlare anche di introspezione e riflessione.

Dall’introspezione, alle parole per poi arrivare al rapporto dal vivo con il pubblico.
Mi piace scrivere, ma soprattutto fare concerti. Uno dei motivi per cui ho scelto la musica è che mi permette di dare voce al mio corpo.