D'accordo Greta potrà non essere simpaticissima con i suoi «come osate» che mettono il dito nella piaga denunciando responsabilità e inerzie nel fermare la crisi climatica. D’accordo, poteva scegliere un skipper meno d’alto bordo per andare Oltreoceano a cantarle a Trump. Ma resta il fatto che lei ha avuto il coraggio di dire parole forti e chiare, dando il la ad un movimento globale di ragazzini che non ha pari nella storia. E che ha l’inusuale capacità di far uscire dai gangheri conservatori e sacerdoti del liberismo, anche i più insospettabili. Se ce lo potevamo aspettare da Vittorio Feltri e da Libero che è andato all’attacco dei «Gretini», colpisce che Greta sia riuscita a stanare politici e filosofi come Luc Ferry, il quale ha sbottato: «Stiamo cadendo in una società delirante e questa non è la soluzione. Spetta agli adulti salvare il mondo che verrà, non ai bambini». Ancora oltre è andato il filosofo Alain Finkielkraut: «Trovo triste che gli adulti si inchinino oggi a un bambino. Credo che l’ecologia meriti di meglio, ed è chiaro che una sedicenne, indipendentemente dalla sindrome di cui soffre, sia ovviamente malleabile e facilmente influenzabile». Reazioni di attacco diretto alla persona che ci dicono quanto le affermazioni dei Fridays for future sulla crisi climatica siano difficilmente contestabili. (Affermazioni che, più oltre, la dicono lunga sullo sguardo violento con cui certa filosofia francese guarda ai ragazzini...).
Qual è la verità che un pensatore ed ex ministro dell’Istruzione come Luc Ferry non si vuole sentir dire? Su Left la raccontano in prima persona i ragazzi che hanno organizzato lo sciopero per il clima, tratteggiando uno scenario che non lascia scampo agli alibi. Entro il 2030, 100 milioni di persone in più saranno costrette a vivere in condizioni di estrema povertà a causa dei cambiamenti climatici. «Le nazioni in via di sviluppo si faranno carico di almeno il 75% dei costi causati dalla crisi climatica nonostante il fatto che la metà più povera della popolazione mondiale generi solo il 10% delle emissioni di CO2 a livello globale», affermano gli attivisti di ActionAid. La lotta per la giustizia ambientale è strettamente connessa con quella per la giustizia sociale. Urgente non è “solo” la riduzione delle emissioni, bisogna pensare a uno sviluppo che sia davvero sostenibile e a politiche che rispettino l’ambiente e i diritti umani. Se l’intervento antropico sulla natura nei millenni ha plasmato mirabilmente il volto del paesaggio, preservando l’ambiente e favorendo lo sviluppo umano, in tempi di turbo capitalismo assistiamo alla sistematica e suicida distruzione dell’ambiente in nome del profitto di pochi (l’1% più ricco della popolazione mondiale detiene una ricchezza pari a quella del restante 99% dice il rapporto Oxfam).
E allora non bastano politiche di Green economy, non serve l’ipocrita greenwashing con cui molte aziende inquinanti si rifanno un’immagine facendo al contempo speculazione. Serve un vero cambiamento di mentalità, di visione, un modo diverso di pensare il benessere, in poche parole un diverso modello di sviluppo e di fare società. Per cominciare abbiamo chiesto a giornalisti, politici, sindacalisti, economisti, sociologi e filosofi di aiutarci a capire cosa significa davvero quel Green new deal di cui tanto si parla oggi, quali novità comporta rispetto alle politiche di green economy che l’Europa in passato ha discusso, in che modo potrebbe favorire la creazione di nuovi posti di lavoro. In questo Left raccontiamo esperienze e esperimenti innovativi di Green new deal che hanno preso avvio in Africa, proprio là dove più pesanti sono gli effetti della crisi climatica.
Come sempre affrontiamo il tema con uno sguardo internazionalista, consapevoli che questioni cruciali come il climate change non si possano trattare da un punto di vista nazionale o, peggio ancora, nazionalista e sovranista. Ma insieme interroghiamo in modo serrato la politica italiana, cercando di capire cosa ci sia di concreto nelle politiche green promesse dal governo Conte II (che potrebbe trovare una base di accordo fra M5s e Pd proprio sul piano delle politiche verdi segnando una discontinuità rispetto al precedente governo). I primi ad essere consapevoli della interconnessione che ci lega e dell’internazionalismo imprescindibile di questa battaglia sono proprio i giovani dei Fridays for future artefici delle manifestazioni che in questo fine settimana si svolgono in contemporanea in molte città del mondo. Tutt’altro che naif, basano le proprie istanze sui risultati della ricerca scientifica. Altro che “figli dei fiori”, loro sono i nuovi illuministi dice il filosofo Salvatore Veca, mentre il ministro dell’Istruzione Fioramonti invita i presidi a giustificare le assenze da scuola il 27 settembre riconoscendo l’importanza della mobilitazione «per numerosi aspetti, a partire dalla necessità improrogabile di un cambiamento rapido dei modelli socio-economici imperanti».
Nei giorni scorsi a Malta è stato stipulato un embrione di accordo per mitigare gli effetti del trattato di Dublino, un passo in avanti rispetto alle politiche dell’odio e dei porti chiusi, ma certamente non basta per affrontare la questione strutturale delle migrazioni, su cui la crisi climatica ha effetti evidenti. Basti dire che secondo un rapporto della Banca mondiale, se non si agirà per ridurre il riscaldamento globale, entro la metà del XXI secolo gli spostamenti interni di popolazioni nell’Africa sub-sahariana, in Asia meridionale e in America Latina riguarderanno più di 140 milioni di persone. Ora spetta alla politica il compito di agire.
[su_divider style="dotted" divider_color="#d3cfcf"][su_button url="https://left.it/left-n-39-27-settembre-2019/" background="#a39f9f" size="7"]SOMMARIO[/su_button] [su_button url="https://left.it/prodotto/left-39-2019-27-settembre/" target="blank" background="#ec0e0e" size="7"]ACQUISTA[/su_button]
[su_divider text=" " style="dotted" divider_color="#d3cfcf"]D’accordo Greta potrà non essere simpaticissima con i suoi «come osate» che mettono il dito nella piaga denunciando responsabilità e inerzie nel fermare la crisi climatica. D’accordo, poteva scegliere un skipper meno d’alto bordo per andare Oltreoceano a cantarle a Trump. Ma resta il fatto che lei ha avuto il coraggio di dire parole forti e chiare, dando il la ad un movimento globale di ragazzini che non ha pari nella storia. E che ha l’inusuale capacità di far uscire dai gangheri conservatori e sacerdoti del liberismo, anche i più insospettabili. Se ce lo potevamo aspettare da Vittorio Feltri e da Libero che è andato all’attacco dei «Gretini», colpisce che Greta sia riuscita a stanare politici e filosofi come Luc Ferry, il quale ha sbottato: «Stiamo cadendo in una società delirante e questa non è la soluzione. Spetta agli adulti salvare il mondo che verrà, non ai bambini». Ancora oltre è andato il filosofo Alain Finkielkraut: «Trovo triste che gli adulti si inchinino oggi a un bambino. Credo che l’ecologia meriti di meglio, ed è chiaro che una sedicenne, indipendentemente dalla sindrome di cui soffre, sia ovviamente malleabile e facilmente influenzabile». Reazioni di attacco diretto alla persona che ci dicono quanto le affermazioni dei Fridays for future sulla crisi climatica siano difficilmente contestabili. (Affermazioni che, più oltre, la dicono lunga sullo sguardo violento con cui certa filosofia francese guarda ai ragazzini…).
Qual è la verità che un pensatore ed ex ministro dell’Istruzione come Luc Ferry non si vuole sentir dire? Su Left la raccontano in prima persona i ragazzi che hanno organizzato lo sciopero per il clima, tratteggiando uno scenario che non lascia scampo agli alibi. Entro il 2030, 100 milioni di persone in più saranno costrette a vivere in condizioni di estrema povertà a causa dei cambiamenti climatici. «Le nazioni in via di sviluppo si faranno carico di almeno il 75% dei costi causati dalla crisi climatica nonostante il fatto che la metà più povera della popolazione mondiale generi solo il 10% delle emissioni di CO2 a livello globale», affermano gli attivisti di ActionAid. La lotta per la giustizia ambientale è strettamente connessa con quella per la giustizia sociale. Urgente non è “solo” la riduzione delle emissioni, bisogna pensare a uno sviluppo che sia davvero sostenibile e a politiche che rispettino l’ambiente e i diritti umani. Se l’intervento antropico sulla natura nei millenni ha plasmato mirabilmente il volto del paesaggio, preservando l’ambiente e favorendo lo sviluppo umano, in tempi di turbo capitalismo assistiamo alla sistematica e suicida distruzione dell’ambiente in nome del profitto di pochi (l’1% più ricco della popolazione mondiale detiene una ricchezza pari a quella del restante 99% dice il rapporto Oxfam).
E allora non bastano politiche di Green economy, non serve l’ipocrita greenwashing con cui molte aziende inquinanti si rifanno un’immagine facendo al contempo speculazione. Serve un vero cambiamento di mentalità, di visione, un modo diverso di pensare il benessere, in poche parole un diverso modello di sviluppo e di fare società. Per cominciare abbiamo chiesto a giornalisti, politici, sindacalisti, economisti, sociologi e filosofi di aiutarci a capire cosa significa davvero quel Green new deal di cui tanto si parla oggi, quali novità comporta rispetto alle politiche di green economy che l’Europa in passato ha discusso, in che modo potrebbe favorire la creazione di nuovi posti di lavoro. In questo Left raccontiamo esperienze e esperimenti innovativi di Green new deal che hanno preso avvio in Africa, proprio là dove più pesanti sono gli effetti della crisi climatica.
Come sempre affrontiamo il tema con uno sguardo internazionalista, consapevoli che questioni cruciali come il climate change non si possano trattare da un punto di vista nazionale o, peggio ancora, nazionalista e sovranista. Ma insieme interroghiamo in modo serrato la politica italiana, cercando di capire cosa ci sia di concreto nelle politiche green promesse dal governo Conte II (che potrebbe trovare una base di accordo fra M5s e Pd proprio sul piano delle politiche verdi segnando una discontinuità rispetto al precedente governo). I primi ad essere consapevoli della interconnessione che ci lega e dell’internazionalismo imprescindibile di questa battaglia sono proprio i giovani dei Fridays for future artefici delle manifestazioni che in questo fine settimana si svolgono in contemporanea in molte città del mondo. Tutt’altro che naif, basano le proprie istanze sui risultati della ricerca scientifica. Altro che “figli dei fiori”, loro sono i nuovi illuministi dice il filosofo Salvatore Veca, mentre il ministro dell’Istruzione Fioramonti invita i presidi a giustificare le assenze da scuola il 27 settembre riconoscendo l’importanza della mobilitazione «per numerosi aspetti, a partire dalla necessità improrogabile di un cambiamento rapido dei modelli socio-economici imperanti».
Nei giorni scorsi a Malta è stato stipulato un embrione di accordo per mitigare gli effetti del trattato di Dublino, un passo in avanti rispetto alle politiche dell’odio e dei porti chiusi, ma certamente non basta per affrontare la questione strutturale delle migrazioni, su cui la crisi climatica ha effetti evidenti. Basti dire che secondo un rapporto della Banca mondiale, se non si agirà per ridurre il riscaldamento globale, entro la metà del XXI secolo gli spostamenti interni di popolazioni nell’Africa sub-sahariana, in Asia meridionale e in America Latina riguarderanno più di 140 milioni di persone. Ora spetta alla politica il compito di agire.